lunedì 30 aprile 2012

Cancro alla prostata: dubbi sull'efficacia dell'intevento chirurgico standard, la prostatectomia radicale

L'intervento di prostatectomia, la rimozione chirurgica della ghiandola prostatica, potrebbe non essere efficace nell'aumentare l'aspettativa di vita dei pazienti affetti da tumore della prostata: l'affermazione, che ha costituito un vero e proprio 'shock' per la comunità scientifica, viene dal più grande trial randomizzato mai condotto sull'argomento, il Prostate Intervention Versus Observation Trial (PIVOT), condotto da Timothy Wilt, professore di Medicina alla University of Minnesota School of Medicine, che con il suo gruppo, che dal 1994 colleziona dati su 731 uomini, ha permesso di evidenziare che l'intevento chirurgico standard per la cura del cancro alla prostata non produce risultati significativi in termini di aumento degli anni di sopravvivenza

 
Il tumore alla prostata è il cancro più comune nella popolazione maschile mondiale. In Italia circa 11.000 uomini ogni anno ricevono una diagnosi di cancro alla prostata: di questi circa 1.000 hanno un'età inferiore ai 65 anni. Si tratta del primo tumore maschile per incidenza che colpisce circa il 12 percento degli uomini. Tuttavia, nel 50 percento dei casi cresce molto lentamente, così, i pazienti affetti, anche se non fruiscono di alcun trattamento, potrebbero vivere per molti anni per poi morire di qualcos’altro.

I risultati dello studio Prostate Intervention Versus Observation Trial (PIVOT), condotto da Timothy Wilt e cominciato nel 1994 con 731 uomini, hanno mostrato che i soggetti che si sono sottoposti al trattamento chirurgico avevano meno del 3 percento di beneficio in termini di anni di sopravvivenza rispetto a coloro che non avevano ricevuto alcun trattamento, dopo essere stati seguiti per 12 anni. La differenza evidenziata, peraltro, non è risultata essere statisticamente significativa e potrebbe, dunque, essere emersa per caso.

Lo studio ha messo a confronto la rimozione chirurgica della ghiandola prostatica – la prostatectomia radicale – con “l’osservazione di attesa” (senza fare niente). I risultati hanno evidenziato che la chirurgia non estende la prospettiva di vita dei pazienti. Uno dei più importanti specialisti britannici, come riportato sul The Indipendent, che ha chiesto di non rivelare il suo nome ha affermato: “l’unica risposta razionale a questi risultati è che quando si presenta un paziente con un tumore della prostata la cosa migliore è non fare niente”.

Quando i risultati sono stati presentati al meeting della European Association of Urology a Parigi lo scorso febbraio, alla presenza di oltre 11.000 specialisti del settore provenienti da tutto il mondo, sono stati accolti con un silenzio che bene evidenziava lo sbigottimento collettivo.

Un esperto che ha partecipato all’evento ha commentato l’accaduto ricordando che mentre durante questi eventi solitamente i risultati di ricerche importanti vengono tweettati immediatamente tra i veri specialisti del settore, lui “non ha visto alcun urologo tweettare entusiasticamente i risultati di questo studio”.

Alcuni urologi che hanno speso molti anni della loro vita per formarsi così da poter attuare complesse tecniche chirurgiche trovano l’idea di osservare il decorso della malattia senza far nulla, assolutamente inaccettabile. Tuttavia, la chirurgia di rimozione della ghiandola prostatica porta con se una serie di effetti collaterali che possono avere un impatto molto forte sulla qualità della vita delle persone che vi si sottopongono, con un 50 percento di uomini che soffre di impotenza e un 10 percento di incontinenza.

La controversia sul miglior trattamento per il cancro alla prostata ha diviso gli esperti in maniera significativa: alcuni specialisti evidenziano che il trattamento chirurgico è al livello in cui si trovava l’intervento chirurgico per il tumore al seno ‘una generazione fa’, quando l’unico trattamento chirurgico era la mastectomia – la rimozione dell’intera mammella. Oggi, la maggior parte delle donne con tumore alla mammella sono trattate attraverso un intervento di rimozione chirurgica del tumore, lasciando il resto della mammella intatto.

Gli urologi sostengono che un approccio simile deve essere approntato per il trattamento del tumore alla prostata e attraverso questa metodica si potranno migliorare anche i tassi di sopravvivenza e ridurre il rischio di effetti collaterali, in quanto una piccola porzione della ghiandola prostatica verrebbero asportati, lasciando i tessuti adiacenti intatti.

Le critiche a questo pensiero sono legate alla mancanza di evidenze scientifiche che giustifichino la terapia targhettizzata. Joel Nelson del Dipartimento di Urologia dell’Università di Pittsburgh, ha affermato che il cancro alla prostata produce dei cambiamenti molecolari nell’intera ghiandola, che può portare a trasformazioni maligne.

Secondo il dott. Nelson, avere come obiettivo una sola parte della ghiandola da un “falso senso di sicurezza”, quando in realtà c’è un rischio di ricaduta che può essere ancor più difficile da trattare. Non esistono chiari criteri per confermare il successo, il che può portare a “incompetenza tecnica”.

La dottoressa Kate Holmes, a capo del The Prostate Cancer Charity in Inghilterra, ha commentato: “i dati preliminari del PIVOT certamente suggeriscono che la chirurgia per rimuovere la prostata non conferisce nessun beneficio significativo in termini di sopravvivenza per gli uomini con un cancro alla prostata di rischio basso o medio. Tuttavia, nonostante questi risultati provengono dal più grande studio mai condotto sul tema, bisogna aspettare la pubblicazione dei risultati definitivi per poter aiutare gli uomini in futuro a prendere una decisione molto più informata rispetto alla alternative a disposizione”.

Gli stessi dubbi sono da tempo al centro del dibattito scientifico per quanto riguarda la fase di prevenzione del tumore alla prostata, con punti di vista discordanti sull'utilità degli strumenti diagnostici tradizionali. Un recente studio del Karolinska Institutet svedese considera inutili gli screening periodici per l'identificazione del rischio di cancro alla prostata. I dati di questo studio si contrappongono alle numerose evidenze relative all'ipotesi che ricercare in anticipo i segni di tumore possa migliorare la prognosi di questo specifico cancro.

Un altro recente studio, condotto dai ricercatori del Memorial Sloan Kettering Medical Center di New York individua un unico esame di ricerca del Psa (antigene prostatico specifico) da somministrare all'età di 60 anni, la cui validità è tutt'ora oggetto di numerosi studi scientifici. Il test individuerebbe 2 gruppi: un primo gruppo con alti livelli di Psa (9 morti su 10 afferiscono a questa categoria), e un secondo con livelli medi o bassi, al quale consigliare ulteriori controlli.

Secondo gli autori di questo studio, tale approccio darebbe una buona soglia di garanzia, in quanto circa il 50 percento della popolazione avrebbe la certezza che dopo i 60 anni non dovrà confrontarsi con un'evoluzione maligna della propria condizione.
 

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