venerdì 31 agosto 2012

Martini: 'Saggio non prolungare trattamenti inutili'



"La crescente capacità terapeutica della medicina consente di protrarre la vita pure in condizioni un tempo impensabili. Senz'altro il progresso medico è assai positivo. Ma nello stesso tempo le nuove tecnologie che permettono interventi sempre più efficaci sul corpo umano richiedono un supplemento di saggezza per non prolungare i trattamenti quando ormai non giovano più alla persona". E' stata sempre questa la posizione del cardinal Carlo Maria Martini sull'accanimento terapeutico, espressa più volte sia in occasione di suoi interventi a convegni sia nell'ultimo libro pubblicato nel marzo scorso 'Credere e conoscere'. Nel suo dialogo con Ignazio Marino il sacerdote spiegava: "Il punto delicato è che per stabilire se un intervento medico é appropriato non ci si può richiamare a una regola generale quasi matematica, da cui dedurre il comportamento adeguato, ma occorre un attento discernimento che consideri le condizioni concrete, le circostanze e le intenzioni dei soggetti coinvolti". "In particolare - aggiungeva Martini - non può essere trascurata la volontà del malato". E continuava: "non si può mai approvare il gesto di chi induce la morte di altri, in particolare se si tratta di un medico. E tuttavia non me la sentirei di condannare le persone che compiono un simile gesto su richiesta di un ammalato ridotto agli estremi e per puro sentimento di altruismo, come pure quelli che in condizioni fisiche e psichiche disastrose lo chiedono per sé". Il suo pensiero, dunque, sull'eutanasia e l'accanimento terapeutico è sempre stato chiaro fin da quando, già malato di Parkinson e bisognoso di continue cure e terapie per "reggere alla fatica quotidiana e per prevenire malanni debilitanti", Martini, intervenne nel dibattito politico aperto dal caso Welby. "C'é l'esigenza - scriveva in un suo articolo sul Sole 24 ore - di elaborare norme che consentano di respingere le cure, anche se per stabilire se un intervento medico è appropriato non ci sono regole generali e non può essere trascurata la volontà del malato".Casi come quello di Piergiorgio Welby "saranno sempre più frequenti" e "la Chiesa dovrà darvi più attenta considerazione pastorale". Martini, tra l' altro, indicava l' esigenza "dal punto di vista giuridico di elaborare una normativa" che tuteli paziente e medico "senza che questo implichi in alcun modo la legalizzazione dell' eutanasia". "Un' impresa difficile, ma non impossibile. Mi dicono - sosteneva Martini - che ad esempio la recente legge francese in questa materia sembri aver trovato un equilibrio se non perfetto, almeno capace di realizzare un sufficiente consenso in una società pluralista". Quella che serve, sottolineava Martini, è una normativa giuridica che, in particolare, "da una parte consenta di riconoscere la possibilità del rifiuto (informato) delle cure, in quanto ritenute sproporzionate dal paziente, dall' altra protegga il medico da eventuali accuse, come omicidio del consenziente o aiuto al suicidio, senza che questo implichi in alcun modo la legalizzazione dell' eutanasia". (ANSA)

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