mercoledì 30 luglio 2014

Ri-Maflow, rifiutare e creare

Gianluca Carmosino

 A metà dicembre il sito era abbandonato. Gli unici rumori che si sentivano nello stabilimento Maflow di Trezzano sul Naviglio (Milano), una volta noto per gli ottocento operai che lavoravano nella produzione di componenti (tubazioni) per autoveicoli, erano quelli dello svuotamento in corso. «In quei giorni siamo entrati e ci siamo piazzati in una piccola parte dell’area – racconta Michele, uno degli ex lavoratori – Qualche giorno dopo con noi c’era un esperto di rifiuti. Ha osservato con attenzione i macchinari e i prodotti rimasti e ha detto che separati valgono almeno venti mila euro».
L’idea dello smaltimento dei rifiuti ingombranti, in particolare di quelli elettronici (da cui estrarre ferro, rame, vetro, plastica…), è stata presa molto sul serio dal gruppo di ex lavoratori. Non si possono definire occupanti, dal momento che hanno subito chiesto a Unicredit, attuale proprietario dello stabilimento, il permesso di impossessarsi di quei «rifiuti» e di utilizzare una parte dei capannoni. Attendono una risposta, nel frattempo la loro idea sta diventando un vero progetto di autogestione, caratterizzato da una conversione ecologica della produzione, come raramente accade in questi casi.
Il progetto ha un nome piuttosto chiaro Ri-Maflow. Nel blog messo su per raccontare la loro esperienza spiegano che il suffiso «Ri», significa «riuso, riciclo, riappropriazione, rivolta il debito, rivoluzione». La forma giuridica individuata è la cooperativa, il modello quello di una vera autogestione, da imparare facendola. In questi giorni nel loro gruppo facebook discutono del logo.
Del resto il patrimonio di idee, saperi, relazioni non mancano. La storia della Maflow è lunga e complessa. Gli ottocento operai degli anni ’70 erano diventati 350 dieci anni fa. Ma il 2007 è stato probabilmente l’anno di massima espansione, visto che il gruppo contava su altri ventidue stabilimenti sparsi nel mondo e la Bmw era il maggior cliente. A Trezzano si preparavano sia i progetti, sfruttando ricerche e nuove tecnologie, che una parte della produzione completa in serie. Nel maggio 2009, improvvisamente, lo stabilimento viene dichiarato insolvente. Arriva l’amministrazione straordinaria e poco dopo un nuovo padrone, il polacco Boryszew che accetta di tenersi lo stabilimento soltanto perchè vincolato agli altri. Passati due anni, non solo non si è rilanciata la produzione come annunciato riassumendo i cassaintegrati, ma anche i pochi dipendenti assunti (80 su 320) vengono licenziati. Lo stabilimento da ottobre 2012 ha annunciato la chiusura definitiva. La proprietà del terreno e dei capannoni è ora di una società legata al gruppo Unicredit.
«Ma noi diciamo con forza che questa fabbrica non appartiene nè a Boryszew né a Unicredit – aggiumge Michele -, ma a tutti i lavoratori e le lavoratrici Maflow che vi hanno lavorato per anni». Così dall’inizio di autunno un gruppo di circa trenta ex lavoratori ha cominciato a incontrarsi e a ragionare di autogestione, mutuo soccorso, fabbriche recuperate, produzioni ecologiche. «Ora chiediamo a Unicredit una parte dei capannoni in comodato d’uso per l’avvio della cooperativa che nascerà tra pochi giorni».
Nel frattempo, altre persone si sono affiancate, a cominciare da alcuni lavoratori espulsi da un’altra azienda, la Novaceta di Magenta (Milano), «con i quali abbiamo condiviso negli anni un percorso di lotta», e alcuni giovani alla ricerca di un lavoro diverso, interessati alla cooperativa autogestita.
Sono giorni difficili ma pieni di entusiasmo. Quelli della Ri-Maflow hanno aperto un varco importante per loro e per altri lavoratori. Aggiunge Michele: «Personalmente non ho avevo mai pensato al lavoro autogestito e ai temi ecologici davo poco importanza, non ho mai avuto un contatto con il sindato. Ma il percorso che abbiamo costruito poco a poco insieme ha permesso di guardare le cose in modo diverso, collegare problemi e immaginare soluzioni. Oggi siamo tutti convinti che l’attività di riutilizzo e riciclo di materiali sia una necessità della società e un lavoro concreto»
Il cuore del nuovo lavoro, dunque, sarà almeno nella fase iniziale lo smaltimento dei rifiuti, il recupero oppure il riciclo. «Abbiamo avuto una sorta di imprinting. Quando improvvisamente ti scartano, ti mandano a casa, ti fanno capire che non servi più, ti senti un rifiuto – dice Michele – Abbiamo provato sulla nostra pelle che rifiuto in realtà significa sempre ‘insieme di risorse’, basta organizzarsi in modo diverso. Di certo, il percorso avviato va oltre la ricerca di un posto di lavoro qualsiasi, abbiamo scoperto e condiviso punti di vista per rimettere in discussione l’idea tradizionale di lavoro».
Nel blog, tra l’altro, scrivono: «Ci ispirano non solo le società di mutuo soccorso storiche, ma anche le esperienze straordinarie figlie dell’attuale crisi e dei tradizionali squilibri del sistema economico-sociale: le fabricas recuperadas argentine, il movimento dei Sem Terra brasiliano, le esperienze di autogestione in Grecia e Spagna». Cosa significa autogestione per loro? «Sperimentare una fabbrica senza padroni, dove tutti percepiscono lo stesso salario e dove si attua una rotazione degli incarichi». Insomma, quelli della cooperativa Ri-Maflow rifiutano il lavoro alienato e qualsiasi padrone e sono pronti a vivere ora il mondo che desiderano creare. Rifiutano e creano.

(foto: una delle manifestazioni contro la chiusura della Maflow)

http://comune-info.net/2013/02/ri-maflow-autogestione-eco/

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