domenica 31 agosto 2014

RELAZIONE FASSINO

3 Febbraio 2005
"Finisce l'illusione. Comincia l'Italia"
(bozza non corretta)
Gentili ospiti,
cari amici,
care compagne e cari compagni,
grazie per essere qui così tanti. E’ un segnale di attenzione di cui vi ringrazio e che ci sprona ancor di più a onorare al meglio le vostre aspettative.
Ringrazio il Presidente Casini che ci onora della sua presenza e tutti i rappresentanti delle istituzioni, dei partiti e delle associazioni.
E ringrazio in particolare Romano Prodi, a cui riconfermo la nostra affettuosa e solida amicizia e il sostegno pieno nella sfida che insieme condurremo.

Desidero anch’io inviare il nostro saluto più affettuoso al Presidente Ciampi, la cui autorità morale e politica è saldo riferimento quotidiano per tutti noi, rigoroso custode dei principi costituzionali e dell’autonomia delle istituzioni della Repubblica in un Paese esposto troppo spesso a strappi istituzionali e lacerazioni sociali.

Penso di interpretare i sentimenti di alta considerazione e di stima di tutti voi indirizzando a Sua Santità Giovanni Paolo II, anche da questo Congresso, gli auguri più sinceri di pronta guarigione, affinché possa riprendere al più presto la Sua missione in favore della pace, della giustizia, della fraternità e del dialogo.

Apriamo questo nostro 3° Congresso dei Democratici di Sinistra consapevoli delle intense aspettative con cui si guarda a noi.

L'Italia, si trova di fronte uno di quei passaggi storici che non lasciano immutata la condizione di un paese. Se ne può uscire più forti, o invece tremendamente indeboliti, drasticamente ridimensionati.

Non si tratta di evocare fantasmi, ma di fare i conti in modo lucido con il rischio di declassamento al quale il nostro Paese è esposto.

Tutti gli indicatori – crescita del Pil, esportazioni, investimenti, innovazione, livello di formazione, natalità, tassi di attività, occupazione femminile – conoscono andamenti negativi o stagnanti e, in ogni caso, più modesti delle dinamiche europee e mondiali. E ormai da tempo l'Italia non accumula le risorse sufficienti al suo sviluppo e alla redistribuzione sociale della ricchezza. Mentre in questi tre anni l’economia mondiale è tornata a crescere.

L'Italia può tornare ad essere "espressione geografica", un "paese senza qualità", un "mercato passivo", trainato da chi ha altrove, in qualche altra parte dell'Europa o del mondo, il centro e il cuore dei suoi interessi.

Oppure l’Italia può tornare a essere grande, scommettendo sulle sue straordinarie risorse, oggi deluse ed inutilizzate: i giovani, troppo a lungo tenuti ai margini del mercato, del lavoro, delle professioni, dell'università e delle ricerca, della politica, da un sistema chiuso e oligarchico.

E poi il dinamismo competitivo delle imprese; il saper fare di milioni di lavoratori; la vivacità della ricerca e dell’università che chiede di premiare il merito e di poter competere con le sedi di eccellenza, in Europa e nel mondo.

E poi il Mezzogiorno, piattaforma naturale europea protesa verso il Mediterraneo, un bacino che dopo cinque secoli di predominio dell'Atlantico, oggi con lo straordinario sviluppo dell'Asia, sta tornando crocevia dello sviluppo mondiale.

E ancora: gli italiani all'estero e gli stranieri in Italia, due facce diverse, ma complementari di una medesima apertura del nostro paese al mondo.

Sì l’Italia è un “grande” Paese: ce la può fare, può rialzarsi.
Il declino è un rischio, non un destino.
Ma per farcela ha bisogno di un progetto in cui credere e una classe dirigente all’altezza del compito.

Per questo il nostro slogan è: “Finisce l’illusione. Comincia l’Italia”.
Sì, finita l’evocazione dei sogni e dei miracoli a buon mercato, il futuro è nelle nostre mani.
E noi abbiamo perciò il dovere di prospettare, qui ed ora, il nostro progetto, sapendo che i tempi non sono lunghi.

Per questo il Congresso è così importante. Siamo la forza più grande del centrosinistra e tocca a noi la responsabilità di indicare una strada e di percorrerla con convinzione. E noi qui vogliamo rendere chiara e visibile la nostra “sfida riformista”.

D’altra parte proprio lo stesso svolgimento di questo Congresso dimostra quanto la nostra gente sia ben consapevole di questa responsabilità.
Oltre 7000 Congressi delle nostre strutture territoriali e aziendali, a cui hanno preso parte 200.000 iscritti, con una percentuale di partecipazione superiore a Pesaro, sono la testimonianza di una passione politica, di una tensione ideale, di una volontà di combattere di cui voglio rendere merito alle donne e agli uomini di questo nostro Partito.
E desidero ringraziare tutte le compagne e i compagni che mi hanno voluto confortare del loro consenso.
Così come ringrazio Fulvia Bandoli, Fabio Mussi e Cesare Salvi – e le compagne e i compagni che ne hanno condiviso le tesi – per il contributo appassionato che hanno voluto dare al nostro dibattito congressuale.

I DS sono una straordinaria risorsa della democrazia italiana; un patrimonio di intelligenza, passione, volontà che noi mettiamo a disposizione dell’Italia.
E da questo Congresso vogliamo parlare al Paese, per trasmettere un messaggio di fiducia e di speranza.

***

Sono trascorsi oltre tre anni e mezzo dalla formazione del governo Berlusconi e molte delle speranze suscitate nel 2001 ormai sono sfumate.

L’economia è ferma. Le esportazioni flettono. Manca una politica industriale. Il Mezzogiorno è sparito dall’agenda politica.
La competitività del nostro sistema produttivo è in affanno e il decreto sulle competitività, promesso per il 1° gennaio, si è perso nelle nebbie.

Le risorse per ricerca, scuola, università sono diminuite.
Alla legge obiettivo sulle infrastrutture non sono seguiti né programmi, né finanziamenti adeguati.
I conti pubblici sono stati messi a rischio dall’incapacità di governare la spesa e da una politica fiscale fondata su condoni dagli esiti perversi.
E Fondo Monetario e Unione Europea non esitano più a prevedere lo sfondamento del 3% di deficit.

Milioni di famiglie guardano alla propria vita quotidiana con maggiore insicurezza e preoccupazione, vuoi perché il reddito si è fatto più stretto, vuoi perché il lavoro proprio e dei figli si è fatto precario.

Peraltro come se tutto questo non bastasse, Governo e maggioranza hanno inflitto al Paese lacerazioni politiche e istituzionali – la giustizia, l’informazione, la devolution – che hanno indebolito la coesione sociale e la stessa identità nazionale.

Per non parlare di un declassamento europeo e internazionale, ben rappresentato dal vertice di Tolosa dove Chirac, Blair, Schroeder, Zapatero, si sono riuniti a discutere della nuova Europa. E l’Italia non c’era.

Una inadeguatezza che il paese sente e che spinge molti a tirare i remi in barca, a non innovare, a non investire, a non fare figli, a rassegnarsi.
Non c’è istituto di ricerca – dal Censis a Eurispes – che non ci parli di un paese inquieto, insicuro, che vive il presente nel timore di ciò che verrà dopo. Che non sa più immaginare l’avvenire con tonalità diverse dal grigio.

C’è un solo italiano che continua a ripetere che le cose vanno bene. Anzi, non potrebbero andare meglio.
Berlusconi ricorda quell’affascinante nobildonna francese, che colta in flagrante amplesso, cercò inutilmente di protestare la propria innocenza, urlando al suo uomo tradito: “Ah benissimo, vedo che non mi amate più: credete di più a quel che vedete che a quel che vi dico!”.

E così, dall’esito fallimentare della sua politica, il centro destra trae non già la conseguenza di un cambiamento di rotta, ma al contrario di una ulteriore radicalizzazione dello scontro politico.
Lo si vede con l’annuncio di voler alterare la par condicio e mettere mano alla legge elettorale soltanto per cercare di evitare altre sconfitte.
Lo si è visto nelle esternazioni di Berlusconi che torna a proporsi come l’angelo del bene contro il diavolo del male.

***

Insomma, un fallimento che indica come la natura della crisi italiana sia essenzialmente "politica", perché è crisi di progetto, di visione, di classe dirigente.

Quel che è fallito è il progetto con cui la destra si proponeva di dare soluzione ad una transizione incompiuta.
Un disegno ambizioso, fondato su tre scelte, perseguite con determinazione, ancorché il loro esito sia disastroso per il Paese.

Intanto la destra ha perseguito l’obiettivo di una “democrazia post-parlamentare” fondata sullo svuotamento delle prerogative del Parlamento, la messa in mora delle autonomie istituzionali – dalla magistratura alle authorities – l’uso spregiudicato della posizione dominante in campo informativo e la ricerca di un rapporto di tipo plebiscitario tra leader e cittadini.

La destra, poi, ha messo in discussione la complementarietà delle due scelte – l’opzione europea e l’alleanza transatlantica – che per oltre 50 anni hanno guidato la politica estera italiana, a vantaggio di un rapporto privilegiato con l’amministrazione Bush, a cui viene del tutto subordinata la nostra collocazione europea.

E, infine, la terza scelta: lo “Stato minimo”, ovvero la riduzione di ogni azione pubblica, di ogni responsabilità sociale, di ogni funzione di guida dei pubblici poteri.
La tesi diffusa a piene mani è stata: “con il meno, si offre il più”.
E dunque: meno Europa perché è un vincolo soffocante; meno azione pubblica perché è ostacolo al mercato; meno Stato sociale perché è un lusso dispendioso; meno diritti – si pensi all’articolo 18 – perché è impedimento alla crescita; meno regole perchè comprimono la libertà di scelta; meno concertazione con le parti sociali e meno istituzioni.
Il messaggio di questa strategia destrutturante era semplice e suggestivo: “un paese più leggero potrà finalmente volare”.
L’esito è sotto gli occhi di tutti: l’Italia non vola.
Il più non c’è. Perché il meno non può che dare meno.
E’ così l’Italia rischia il declino.

***

Insomma la destra ha tentato – non riuscendoci – di dare una soluzione al “problema italiano”. Mi riferisco alla crisi della costituzione materiale dell’Italia, all’esaurirsi di quell’originale intreccio di compromessi sociali, funzione dei partiti di massa, boom industriale del Paese, diffusione del benessere, crescita culturale e civile, che lungo i primi quarant’anni della Repubblica ha fatto dell’Italia una grande e moderna nazione.
Quella crisi iniziò alla fine degli anni ’70 – con il rapimento e l’uccisione di Moro e la fine della solidarietà nazionale –, maturò negli anni ’80, conobbe un ulteriore acutizzazione nell’89 con il mutare dello scenario europeo e mondiale, precipitando poi nel ’92 – ’94.
E al termine del decennio che ci sta alle spalle non ha trovato ancora uno sbocco definitivo.

La destra nel 2001 ha vinto le elezioni perché ha trasmesso la sensazione di saper affrontare quel problema.
Ma il modello proposto non ha retto alla prova dei fatti: si è rivelato sbagliato e l’esito è sotto gli occhi di tutti.

Qui sta, dunque, oggi la responsabilità del centrosinistra.
Tocca a noi dare soluzione ad una transizione ormai troppo lunga.
Dirò di più: “dobbiamo” farlo, perché il Paese non ricomincerà davvero se non si aggrediscono le tante fragilità che lo minacciano.
Non si tratta soltanto di sostituire una maggioranza di governo, né soltanto di realizzare una pure importante alternanza nella guida politica.
Né si tratta semplicemente di tornare a prima del 2001, considerando l’epoca berlusconiana una infelice parentesi da dimenticare.

Si tratta di qualche cosa di più profondo: contrastare una deriva, mobilitare le tante energie della società; offrire a ciascuno la possibilità di far valere la propria capacità; restituire all’Italia il senso di una sfida; mettere in campo una nuova stagione della democrazia; riconsegnare ad una società lacerata e divisa il valore dell’appartenenza e dei legami profondi che devono far percepire ciascuno parte di una comunità nazionale; ricostruire la costituzione materiale e morale di questo Paese.

***

Precisamente qui vive il nostro congresso.
Nello sforzo di definire l’idea dell’Italia che mettiamo in campo per conquistare, da oggi al 2006, una maggioranza di consensi tra gli italiani.

E’ qui che si misura la nostra funzione dirigente.
Ed è questo il banco di prova del nostro “riformismo”.
Che cosa voglia dire essere riformisti, che cosa significhi la “sfida riformista”, quale sia il progetto di una sinistra che si ispiri ai valori del socialismo democratico europeo: tutto questo lo dobbiamo rendere esplicito oggi con un progetto che parli dell’Italia e del suo futuro.

Perché una cosa va detta con chiarezza: noi non pensiamo di vincere le elezioni politiche solo sull’onda del fallimento della destra.
Noi vogliamo vincere le elezioni sulla base di una nostra visione della società italiana e del suo futuro.

Ho riletto un passo del discorso d’accettazione della candidatura che John Kennedy pronunciò nel 1960 davanti alla platea dei delegati democratici.
“Penso – diceva – che i cittadini si aspettino da noi molto di più che invettive o urla di indignazione. La situazione è troppo grave, le sfide troppo urgenti, e la posta in gioco troppo alta per far sì che il dibattito politico degeneri.”
E aggiungeva: “se conduciamo una battaglia tra il presente e il passato, rischiamo di perdere il futuro. E oggi la nostra preoccupazione deve essere per il futuro. Perché il mondo sta cambiando e un’epoca tramonta.”

Per questa ragione, io qui oggi vorrei parlare poco di “loro”.
Qui, oggi, vorrei parlare soprattutto di “noi”.
Della nostra visione del mondo, della nostra proposta di governo.
Di noi e dell’avvenire dell’Italia.

***

Questa Italia, noi prima di tutto la vogliamo pensare nel mondo.

Le immagini di quel che accade a migliaia di chilometri da noi, entrano in pochi minuti nelle nostre case, coinvolgono le nostre emozioni, suscitano inquietudini, sollecitano domande di senso sul destino dell’uomo e del suo futuro.

La tragedia dello Tsunami, con le sue 250.000 vittime – tra loro tanti nostri connazionali – è lì a ricordarci l’insostenibilità di uno sviluppo che ignori o neghi le leggi della natura e dei cicli biologici.
La vista della soverchiante forza della natura è un brusco richiamo alla finitudine, come dimensione radicale dell'esistenza umana. E’ una brutale replica alle illusioni di prometeico dominio di una terra che invece ci è solo data in prestito, e dobbiamo sapere rispettare.

Sono trascorsi più di vent’anni da quando Willy Brandt e Olof Palme – due socialdemocratici, due riformisti – richiamarono il mondo a interrogarsi sul suo destino e sui limiti laceranti di una crescita puramente quantitativa che non si ponesse l’obiettivo di rispettare la natura e ridurre l’insopportabile divario tra il Nord e il Sud del mondo. E quel monito è ancora attuale. Ed è la frontiera con cui la politica deve misurarsi.

Oggi nel Sud-Est asiatico, ma non solo: dall'altra parte dell'Oceano Indiano c'è l'Africa, il vero continente alla deriva, l'epicentro della povertà, della fame, dell'Aids, delle guerre dimenticate.

Alle proposte avanzate da Lula, Zapatero, Lagos, Chirac per una tassazione internazionale a favore della lotta alla povertà e all’Aids e alla decisione di Tony Blair e Gordon Brown - in vista della presidenza britannica del G8 e, nel prossimo semestre, dell'Ue - di concentrare verso l’Africa uno sforzo straordinario, altri atti devono seguire: la riduzione del debito, l’effettiva apertura dei mercati ai paesi in via di sviluppo, l’esenzione di ogni dazio o fisco sulle esportazioni dei 48 paesi più poveri del mondo, la riduzione delle royalties sui farmaci anti Aids, la tutela dei beni comuni globali come l’acqua.

Così come in tempi in cui venti bellicisti tornano a spirare, occorre riprendere il cammino del disarmo con negoziati multilaterali per il blocco degli armamenti nucleari, la distruzione degli armamenti chimici, la non proliferazione delle armi di distruzione di massa, la riduzione degli armamenti convenzionali.

E’ una responsabilità che riguarda anche l’Italia: per questo chiediamo al governo italiano di riprendere le politiche di riduzione del debito e mettere fine allo scandaloso svuotamento di ogni politica di Aiuto allo sviluppo.
E diciamo fin da ora che con noi al governo l’Italia farà propri gli obiettivi del Millennium Round e rispetterà l’impegno per lo 0.7% del PIL per l’Aiuto allo sviluppo – oggi siamo allo 0,15%! – adoperandosi per raggiungere il traguardo dell’ 1%.

Così come chiediamo al Governo italiano di intraprendere, senza ambiguità e reticenze, l’applicazione del protocollo di Kyoto e di battersi per la creazione di una Organizzazione Mondiale dell’Ambiente che, insieme all’Organizzazione Mondiale della Sanità e all’Organizzazione Internazionale del Lavoro, costituiscano un primo nucleo di “governance sociale”.

Ed è certo un segno dei tempi che dal Forum Sociale Mondiale di Porto Alegre e dal World Forum di Davos – due sedi così diverse per composizione e ispirazione culturale – siano venute sollecitazioni e indicazioni convergenti: un'agenda nuova sta forse cominciando ad essere scritta. E inevitabilmente ad essa devono corrispondere nuovi equilibri politici.

Ce lo dice anche la vicenda irakena.

Domenica 8 milioni di irakeni si sono recati alle urne nelle prime elezioni libere dell’Irak da decenni.
E’ un fatto di straordinaria importanza che noi – come ogni democratico – salutiamo con gioia, rivolgendo qui un affettuoso benvenuto ai rappresentanti dei partiti curdi e irakeni ospiti del nostro Congresso.
Da quel voto escono due indicazioni politiche chiare.
Il popolo irakeno ha respinto il ricatto dei terroristi.
A chi scioccamente e irresponsabilmente ha definito Al Zarkawi e i suoi accoliti dei resistenti, replichiamo che i veri resistenti sono quegli 8 milioni di donne e uomini irakeni che, votando, hanno detto no alla morte e sì alla vita.
E, al tempo stesso, recandosi a votare curdi, sciiti e anche sunniti hanno voluto dire al mondo – e in primo luogo a Bush – che vogliono essere padroni del proprio destino; prendere nelle loro mani il futuro del loro Paese; lasciarsi alle spalle sia Saddam Hussein, sia la guerra, per costruire finalmente un Irak libero.

La nostra contrarietà a quella guerra rimane. Per come è stata giustificata, per l’unilateralità con cui è stata decisa e condotta, per le molte conseguenze negative che ha prodotto.
Né possono essere ignorate anche le difficoltà che il voto segnala, a partire dal non risolto coinvolgimento di una parte della comunità sunnita.

E, tuttavia, non possiamo non vedere che quel voto segna uno spartiacque e che la priorità per tutti, anche per noi, oggi è raccogliere le domande di quegli elettori. E le scelte da compiere vanno assunte non sulla base delle schermaglie del dibattito politico di casa nostra, ma sul passo e sui bisogni di quella democrazia.

Una grande forza politica che ambisca a governare un Paese non è chiamata semplicemente a esprimere sentenze o a ribadire giudizi.
Dobbiamo avere una politica che concorra a dare soluzioni ai conflitti ed ai problemi.

Adesso quelle elezioni siano effettivamente la leva per determinare un mutamento di scenario.
Si insedi subito il nuovo Parlamento. Si formi il nuovo Governo rappresentativo di tutte le diverse comunità. Si operi perché anche quei settori di popolazione sunnita che hanno rifiutato le elezioni si sentano parte della nazione irakena e si adotti una Costituzione che tuteli tutte le componenti etniche e religiose della società irakena.
Si convochi il Consiglio di Sicurezza dell’Onu per definire con quale strategia gestire la nuova fase. E in quella sede si decida l’avvio del ritiro delle truppe di occupazione e la loro eventuale sostituzione con una forza multinazionale di pace, sotto egida Onu, che sia percepita dai cittadini iracheni come un elemento di stabilità e di sicurezza. Ed in questo quadro l’Italia definisca le modalità del rientro dei suoi soldati, riconfermando il sostegno del nostro Paese a ogni iniziativa che l’Onu e l’Unione Europea ritengano di dover assumere per dare stabilità, sicurezza e democrazia all’Irak.
E si convochi una nuova Conferenza Internazionale per varare un programma straordinario di aiuti sia per la ricostruzione economica, sia per il rafforzamento delle istituzioni democratiche legittimate dal voto.

Ma attenzione, proprio il passaggio elettorale irakeno ci sollecita ad affrontare, senza reticenze, anche un’altra questione.
Come tanti di voi, anch’io ho promosso e partecipato a manifestazioni contro la guerra e per la pace. Ma ogni volta – e come me credo tanti – mi sono chiesto turbato perché Saddam Hussein fosse ancora lì. E che cosa avevamo fatto noi – noi europei, noi sinistra, noi riformisti, noi uomini di pace – per farlo cadere.
Il nostro no a quella guerra – e a ogni guerra futura – sarà tanto più efficace e convincente se avremo una strategia per ottenere con gli strumenti della politica quello che altri pensano di perseguire solo con le armi.
Quando si negano diritti, quando si torturano oppositori, quando si reprimono minoranze, quando si vìolano donne, quando si soffocano libertà, noi non possiamo restare inerti. E tanto meno possiamo appagarci del falso alibi delle diversità culturali, etniche e religiose.
Questo intendo dire quando affermo che alla guerra preventiva occorre sostituire la politica preventiva.
E cioè una strategia attiva che di fronte ai mali del mondo non allarghi le braccia, né si appaghi di trovare un “colpevole”, sperando magari che vi sia di mezzo qualche americano con cui prendersela.
Il riformismo è cambiare le cose, non osservarle, né subirle.

E quando il Presidente Bush – come ha fatto ancora in questi giorni – ripropone le sue dottrine belliciste, noi dobbiamo non solo denunciarne con forza il pericolo, ma chiederci con quali strategie politiche agire.
Così, per esempio, di fronte agli inquietanti moniti rivolti da Bush all’Iran, è urgente che l’Unione Europea agisca subito – nei prossimi colloqui con le autorità di Teheran – ottenendo impegni certi e verificabili che rassicurino il mondo e lo mettano al riparo da nuove avventure.
Ecco un esempio di “politica preventiva”.

Sì, serve una politica preventiva per prosciugare le paludi dell’odio – dalla Cecenia al Darfur – e dare soluzione politica ai conflitti che insanguinano il mondo, a partire dal conflitto israelo-palestinese, per il quale si è aperta una nuova finestra di opportunità, con la elezione di Abu Mazen – il più riformista dei leaders palestinesi – e la formazione del gabinetto Sharon-Peres, voluto con tenacia dal leader laburista israeliano.
Politica preventiva per affermare i diritti civili e umani e la loro universalità in ogni contesto.
Politica preventiva per favorire il dialogo di civiltà, di culture, di religioni, dimensione essenziale per un mondo sicuro.
Politica preventiva per lottare contro il terrorismo e riportare nel circuito della parola – cioè della democrazia e della politica – chi, sentendosi escluso, crede di essere riconosciuto ricorrendo alla violenza e al terrorismo.
Politica preventiva per combattere davvero e con determinazione ogni forma di oppressione e con essa la fame, la povertà, le malattie, lo sfruttamento e la tratta delle donne e dell’infanzia, il sottosviluppo.

E’ per tutto questo che servono istituzioni multilaterali forti a partire dall’Onu.
Noi non siamo di quelli che invocano l’Onu con la segreta speranza che le sue fragilità le impediscano di agire. Noi puntiamo sul rafforzamento dell’Onu – e delle altre istituzioni sopranazionali – come sede di quel multilateralismo, unica, vera, necessaria alternativa all’unilateralismo.
Per questo le Nazioni Unite devono essere dotate di risorse, strumenti, legittimità così come indicato nel rapporto presentato dal Gruppo dei Saggi a Kofi Annan. E devono essere guidate da un Consiglio di Sicurezza effettivamente rappresentativo del mondo di oggi, a cui affiancare un Consiglio di Sicurezza economico, che assuma la funzione di indirizzare e coordinare l’azione delle istituzioni finanziarie internazionali, perseguendo strategie non solo di espansione del libero commercio, ma anche di tutela di diritti umani, di sviluppo sostenibile, di redistribuzione di opportunità a favore di paesi deboli.

***

E’ per questo che ci vuole l’Europa.

In un mondo sempre più indipendente, guai se l’Europa si sentisse appagata della sua prosperità, preoccupandosi solo di proteggerla. Questa stessa possibilità dipende dalla capacità di essere un attore globale, un fattore riequilibrante delle dinamiche mondiali, dei rapporti di forza, degli equilibri tra continenti.

Un’Europa che non si faccia scudo dei suoi egoismi protezionistici e sia capace di interloquire e negoziare con nazioni emergenti e paesi in via di sviluppo, che non si accontentano di parole di comprensione, ma chiedono un mutamento delle ragioni di scambio ed apertura dei mercati.

Un’Europa che, forte dei suoi valori occidentali, assuma su di sé la responsabilità di promuovere un confronto tra civiltà, culture e religioni sul cruciale tema della secolarizzazione, cioè quella separazione tra sfera politica e sfera religiosa, decisiva per affermare in ogni luogo democrazia e diritti.

Un’Europa che non si sottragga alla responsabilità non meno rilevante di sanare la frattura che, con la vicenda irakena, si è consumata tra Stati Uniti e mondo.
Proprio quella guerra dimostra che gli Stati Uniti da soli non ce la fanno a governare il pianeta. Ma, nessuno può pensare di governarlo senza o contro gli Stati Uniti.
Anzi, proprio nel momento in cui sulla scena mondiale si affacciano nuovi protagonisti – la Cina, l’India, il Brasile, il Sud Africa, l’universo islamico – l’Europa deve sentire la responsabilità di sottrarre l’America alla solitudine imperiale per ripristinare tra le due sponde dell’Atlantico un comune agire.
Non serve un’Europa vassalla. Ma non servirebbe davvero un protagonismo europeo in chiave antiamericana.

La condizione perché tutto ciò avvenga è che l’Europa esista e sia forte. Qui c’è anche la nostra responsabilità.

Nessun paese europeo può pensare il proprio futuro in una dimensione autarchica o protezionistica.
L’Europa è e sarà sempre di più il luogo, la dimensione, lo spazio della vita di tutti gli europei.
D’altra parte non è forse questo il significato più profondo dell’allargamento dell’Unione Europea a 10 nuovi paesi? E non dice la stessa cosa la volontà dei Balcani di ritrovare nell’integrazione europea il definitivo superamento delle contrapposizioni etniche?
E non è forse per la stessa ragione che Turchia e Ucraina – due grandi nazioni, ai confini dell'Europa, terre di frontiera con la Russia e col mondo arabo-islamico – bussano alle porte dell'Unione?

Ecco, per noi l’Italia deve stare lì, con i piedi, il cuore, la testa nell’Unione Europea.
E non per una ragione ideale soltanto.
Ma perché se si guarda ai sessant’anni di storia repubblicana, non si può non vedere che la piena adesione alla integrazione europea è stata una delle condizioni dello straordinario balzo in avanti compiuto dal nostro Paese.

Sì, cari compagni e cari amici, è tempo di reagire alla campagna populistica e provinciale che la destra conduce contro l’Europa.
A stare in Europa l’Italia non ci ha rimesso, ci ha guadagnato.
Non saremmo mai divenuti quella grande nazione che siamo oggi se non avessimo beneficiato di tutte le opportunità che sono derivate dall’aver partecipato, fin dalla fondazione, alla comunità europea.

E anche in anni più recenti, senza l’Europa l’Italia sarebbe stata una nazione alla deriva e tutte le sue fragilità si sarebbero acutizzate ancor di più.
E’ agganciandoci all’Europa che noi del centrosinistra abbiamo ridato stabilità a un paese che aveva un’inflazione tripla rispetto alla media europea, il debito pubblico più alto d’Europa e un deficit di bilancio che, anno dopo anno, ci indebitava sempre di più.

Certo, sappiamo bene che anche l’Unione Europea e le sue politiche hanno bisogno di essere rivisitate. E, anzi, da anni sosteniamo la necessità di revisioni del Patto di Stabilità, lungo le proposte che un riformista e socialista – Jacques Delors – per primo ha proposto.

Ma un conto è interrogarsi come andare oltre, verso una integrazione più forte e più efficace, più vicina ai cittadini.
Altro conto è evocare – come fa la destra italiana – la nostalgia del passato e rappresentare l’Europa come un rischio, un vincolo soffocante, un danno, rivelando così una reticenza euroscettica da cui l’Italia non può che trarre, sì, danno.

In questi anni l’Unione ha conosciuto salti enormi: la moneta unica, il mercato integrato, l’allargamento, la crescita di politiche comunitarie in ogni campo, la Costituzione.
Una progressione così travolgente, nella sua rapidità, da creare problemi di gestione e soprattutto di adeguamento delle stesse categorie culturali e politiche con le quali pensiamo l'Europa.

E’ questa la nuova frontiera dell’integrazione europea: dopo aver realizzato – con la moneta unica – stabilità; dopo aver avviato – con l’allargamento – una più ampia area di integrazione e di unità politica; dopo aver consolidato – con la Costituzione – la sua dimensione politica e istituzionale; adesso l’Unione è di fronte alla esigenza di rimettere in moto crescita, competitività, lavoro e qualità civile e sociale dello sviluppo. E, dunque, occorre che le politiche di bilancio e di convergenza e il Patto di stabilità siano riorientati a quegli obiettivi.

In ogni caso questo è per noi un punto irrinunciabile: l’Italia deve pensarsi in Europa e con l’Europa.
E con noi sarà così.

***

Questa, d’altra parte, è anche la condizione per affrontare il vero nodo cruciale dell’Italia di oggi: tornare a far crescere questo Paese.

Richiamo la vostra attenzione su questo punto.
La sinistra ha tradotto storicamente i propri obiettivi di uguaglianza in un’azione per la redistribuzione dei benefici dello sviluppo.
Ma dando per acquisito – perché così era – che la crescita ci fosse. E che, dunque, di volta in volta compito nostro fosse decidere semplicemente se essere più arditi o più moderati nelle rivendicazioni.

E, invece, oggi non è così.
L’Italia non cresce o comunque cresce in misura insufficiente sia a finanziare una adeguata politica di investimenti, sia a redistribuire i suoi benefici.
E un paese che non produce ricchezza, può redistribuire una sola cosa ai suoi cittadini: debiti.
E’ quel che è già accaduto in altri periodi. E può tornare ad accadere oggi.

Non cresciamo perché il nostro sistema produttivo si è sviluppato su tecnologie di media intensità, oggi più facilmente delocalizzabili e producibili in paesi a basso costo del lavoro.
La piccola e piccolissima impresa gode di innegabili vantaggi in termini di dinamicità e adattamento ai mercati, ma soffre anche di limiti obiettivi nei volumi produttivi, nell’autofinanziamento, nella capacità di innovazione, nell’accesso a mercati lontani.
Scontiamo il divario di una minore qualificazione scolastica e formativa e un'insufficiente livello di ricerca e innovazione.
Pesano la cronica insufficienza di infrastrutture, o l'inefficienza della pubblica amministrazione o la rigidità del sistema bancario, mentre, si è andato nuovamente accentuando lo squilibrio territoriale Nord-Sud, sconosciuto in termini così macroscopici a qualunque altro paese europeo.

Sono questi i nodi da aggredire.
Non si cresce spalmando qualche esigua riduzione fiscale, ma misurandosi con le “ sfide alte dello sviluppo”: la specializzazione tecnologica; la crescita dimensionale delle imprese; l’internazionalizzazione; la politica energetica; le infrastrutture e le reti. E il territorio, e il patrimonio di storia, cultura, civiltà che incorpora, come una leva per dare alla crescita qualità sociale e ambientale.

E, in questa chiave, il Mezzogiorno visto non come “problema” ma come l’opportunità di rendere attive risorse inespresse o sotto utilizzate: risorse naturali e ambientali, risorse storiche, culturali, identitarie e prima di tutto grandi risorse umane a cui si deve offrire non qualche mancia assistenziale – come sta nuovamente avvenendo – ma strumenti per favorire investimenti, formazione, servizi.

Insomma: non sta scritto da nessuna parte che l’Italia debba rassegnarsi al declino industriale.

Certo, non basta riproporre il modello industriale di ieri.
Bisogna rinnovarlo profondamente.
E questo richiede una scelta strategica, che l’Italia non ha mai davvero compiuto e oggi non è più rinviabile: investire in quella ricchezza sociale che è il capitale umano; il sapere, la conoscenza.

Non paia questo tema astratto.
Le grandi nazioni sono diventate tali perché hanno investito nel sapere e sulla conoscenza.
Noi no.
Nella popolazione tra 21 e 65 anni abbiamo il 12% di laureati a fronte del 38% degli Stati Uniti e il 33% in Gran Bretagna, Francia e Germania.
E tra i 25 e 34 anni soltanto il 57% in possesso di titolo di studio, mentre è l’85% in Germania, il 78% in Grecia, il 95% in Corea e il 94% in Giappone.
Abbiamo il più alto tasso di abbandoni universitari e nelle scuole superiori e la più bassa percentuale europea di asili nido e scuole dell’infanzia.
Abbiamo uno dei più bassi tassi europei di investimento pubblico sulla ricerca con 2,8 ricercatori ogni 1000 occupati, la Francia 6,2, la Germania 6,4, il Giappone 9,3.

Abbiamo 54.000 studenti iscritti ai corsi di laurea in comunicazione di massa, mentre si riducono anno dopo anno gli iscritti a ingegneria, chimica, fisica, scienze matematiche.
Le nostre Università non hanno risorse per finanziare ricerca e cresce ogni anno il numero di giovani laureati e ricercatori che cercano all’estero quelle chances che qui sono impossibili.
Siamo tra i paesi che hanno il più alto numero di telefoni cellulari, ma li produce la Finlandia, che non a caso destina il 3% del Pil alla ricerca.

Sono queste le ragioni per cui abbiamo contestato la Moratti: perchè la sua politica non aggredisce queste criticità, ma le aggrava.

Per questo diciamo con forza: facciamo dell’investimento sul capitale umano una scelta strategica destinando una quota di risorse più alta alla scuola pubblica e all’università e valorizzandone l’autonomia.
Portiamo entro il 2009 la spesa pubblica per ricerca al 2%.
Mettiamo in campo un vasto programma di information technology, che innalzi la alfabetizzazione digitale e consenta alle piccole e medie imprese di usare la rete per arrivare là dove con le sole loro strutture fisiche non arriverebbero.
Si organizzino infrastrutture di ricerca e luoghi di interscambio e trasferimento di tecnologie e si assumano subito 5000 giovani ricercatori per dare un segnale forte.
Si istituisca l’Agenzia per la ricerca e lo sviluppo tecnologico e si investa su alcuni grandi progetti pilota nazionali di rapporto tra Università e imprese.
E insieme a ciò variamo un grande programma di “formazione permanente” capace di sostenere un mercato del lavoro flessibile e di mettere ciascuno nelle condizioni di puntare sulle proprie capacità.
E incentiviamo comunità, associazioni, individui, imprese, territori ad impossessarsi sempre di più delle nuove tecnologie, incentivando un uso produttivo dei nuovi sistemi di comunicazione, meno passivo e più interattivo, meno verticistico e più pluralistico.
Il 2005 è l’anno di Einstein, il 2009 sarà l’anno di Galileo.
Vogliamo impegnare questi quattro anni per far decollare un’Italia del sapere e della conoscenza!?

Allora sì ha senso porre – come è giusto e come dobbiamo porre senza reticenze – anche il tema della qualità della scuola, del rigore degli studi, della necessità di una costante valutazione dei docenti, di andare al di là del solo valore legale del titolo di studio e certificare l’effettivo sapere acquisito.
Ma tutto questo si può fare – e si deve fare – se si investe sulla formazione, si scommette sulla conoscenza e così tutti capiscono che sapere di più, studiare di più è il modo per avere più chances.

Questo è il riformismo che vogliamo: che chiede a tutti di puntare al meglio su di sé, perché crea le condizioni affinché ognuno lo possa fare, libero da barriere di reddito e da sfavorevoli eredità sociali.


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Compiere queste scelte conduce ad un altro nodo cruciale: il rapporto tra mercato e politiche pubbliche.

Spesso si rappresentano questi due termini in antitesi, quando invece appaiono sempre più inscindibili e complementari.
L’Italia è una buona dimostrazione di ciò.

La destra evoca a ogni pie’ sospinto il mercato, ma poi ne ha spesso paura e si rifugia facilmente nel protezionismo.
E d’altra parte come potrebbe essere diversamente visto che la destra italiana si è scelta come leader un imprenditore che nel mercato ci vuole stare da monopolista assoluto, magari controllando anche il principale concorrente? E non trova imbarazzante essere titolare di continui conflitti di interesse che, oltre che violare l’etica pubblica, alterano proprio il mercato e la concorrenza?

Noi che siamo la sinistra non abbiamo alcun imbarazzo a dire che l’Italia ha bisogno di più mercato.
Serve più mercato nelle libere professioni, abbattendo barriere che impediscono a migliaia e migliaia di giovani di poter accedere alle attività professionali.
Serve più mercato nel sistema finanziario e bancario, favorendo l’accesso al credito per chi ha idee, e non solo mattoni da offrire in garanzia.
Serve più mercato nei settori pubblici essenziali a vantaggio di consumatori e cittadini, a partire da una produzione e distribuzione di energia meno cara e più pulita; serve più mercato nella diffusione delle reti e dell’information-technology per una più semplice accessibilità a brevetti, conoscenze, mercati; serve più mercato nel sistema televisivo e nella pubblicità che lo sostiene.
E tutto ciò è urgente per liberare risorse, rompere corporativismi e rendite di posizione, creare nuove opportunità di investimento e di lavoro. Per aprire la società. E prima di tutto aprirla ai giovani.

E contemporaneamente l’Italia ha bisogno di più politiche pubbliche.
Non c’è in questa affermazione alcuna nostalgia.
Lo Stato che si fa imprenditore – producendo lingotti, auto, lambrette, panettoni, pelati inscatolati – appartiene ad un’altra fase dello sviluppo.
Ma se si vuole fare ricerca, investire nel sapere, ammodernare infrastrutture materiali e digitali, investire in energia pulita, valorizzare territorio e ambiente, restituire città e il loro habitat alla vita, tutto ciò non si fa senza forti politiche pubbliche, condizione anche per mobilitare risorse private.

E se occorrono ammortizzatori sociali efficaci per un mercato del lavoro flessibile; se si vuole rendere moderna la macchina pubblica e valorizzare chi ci lavora: anche in questo caso servono forti politiche pubbliche.

E’ così che noi vogliamo far tornare a crescere l’Italia, restituendo a chi fa imprese l’orgoglio del proprio successo; a chi lavora il riconoscimento delle proprie capacità; a chi studia e ricerca, la voglia di farlo per sé e per il proprio Paese.

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L’investimento nel capitale umano è anche la leva per affrontare l’altro nodo strategico: quale Stato sociale per una società flessibile.

Per farlo occorre liberarsi di una visione ideologica secondo cui competitività e coesione sono incompatibili; e, dunque, ridurre drasticamente il welfare sarebbe l’unico modo per finanziare la crescita.

Non è così.
Basterà ricordare che le nazioni scandinave, patrie del più robusto welfare state che si conosca, registrano anche a più alti tassi di produttività.
E guardando all’Italia, i punti di maggiore specializzazione tecnologica e competitività si sono realizzati negli ultimi quindici anni nei Distretti Industriali, dove più integrato è il rapporto tra impresa, territorio, soggetti sociali, sistema dei poteri locali e servizi pubblici.
E, anche guardando all’Asia – una delle aree dove di più vigono le regole della competizione – si può facilmente costatare che quando la Corea e le altre “tigri asiatiche” sono approdate ad un certo livello di crescita, è stato ineludibile passare dalla dittatura alla democrazia e creare una sistema di sicurezze sociali e di diritti.
Si ignora, insomma, che nei paesi avanzati il welfare è ormai un dato irrinunciabile di “civilizzazione” del mercato e lo stato sociale non è solo redistribuzione, ma fattore costitutivo dello sviluppo.

D’altra parte la spesa sociale italiana è più bassa della media europea. E lo è in tutte le voci: spendiamo di meno per le famiglie; spendiamo di meno per i bambini; spendiamo di meno per le persone non autosufficienti; spendiamo di meno per gli anziani; e spendiamo meno per la sanità, pure in una società in cui il tempo di vita si allunga e la domanda di cura cresce.
E spendiamo meno per la scuola, dove pure abbiamo appena dimostrato è necessario investire di più.
E se si separa la spesa previdenziale dagli oneri per la cassa integrazione e ammortizzatori sociali – oggi tutti a carico dell’Inps – si scopre che per le pensioni la spesa italiana non è più alta della media europea e per gli ammortizzatori sociali è nettamente inferiore.

E, dunque, la riforma del welfare va affrontata – ecco la differenza tra i riformisti e i conservatori – non sulla base della supposta insostenibilità finanziaria, ma individuando quali siano i nuovi rischi e i nuovi bisogni di una società che non è più retta dalla staticità del lavoro e non ruota più intorno alla organizzazione sociale fordista.

E, dunque, serve un welfare in cui i cittadini abbiano diritto a ricevere prestazioni non perché appartenenti a questa o quella categoria sociale, ma in funzione delle condizioni di bisogno e dei rischi a cui concretamente sono esposti.
Serve una riforma coraggiosa del welfare non per dare meno, ma per dare meglio e a chi rischia di più.

E, in secondo luogo, serve un welfare che metta al centro la persona sia nella sua individualità di cittadino, sia nel suo sistema di relazioni familiari: i bambini, i figli, i nonni, la parità nella coppia.

C’è intanto una assoluta priorità: tornare a dare certezze al lavoro che in questi anni è stato esposto ad una continua riduzione di peso e considerazione: 2 lavoratori atipici su 3 sono cronicamente precari; il 65% degli italiani di età tra 21 e 35 anni ha un lavoro precario, discontinuo o a termine; abbiamo la più bassa quota di occupazione femminile dell’Unione Europea; nel 48% delle famiglie lavora una sola persona.
E anche chi lavora in grandi imprese non è più garantito per sempre, come dimostra bene il caso della Fiat, in questi giorni ad un tornante cruciale per la vita stessa di quella azienda; o il caso dei lavoratori della Thyssen di Terni, a cui va la nostra solidarietà.

Non si tratta di contestare l’esistenza di un mercato del lavoro mobile e flessibile, né di esorcizzare delocalizzazioni che spesso sono l’unico modo per tenere produzioni e mercati.
Ma nessun uomo o donna è disposto ad accettare una condizione di perenne precarietà esistenziale.
E oggi questo rischio lo corrono molti.

Lo corrono, in primo luogo, le tante famiglie costrette a vivere con redditi sempre più stretti.
Le cifre dicono più di ogni ragionamento: nel 2004 l’importo medio di tutte le pensioni erogate dall’ Inps è stato di 650 euro al mese. Oltre il 50% delle pensioni Inps non supera i 600.
Una lavoratrice tessile con 25 anni di anzianità ne percepisce 850.
Un lavoratore Fiat con 35 anni di azienda 1.100.
E una bibliotecaria alla III Università di Roma – con tanto di laurea e specializzazione – 1.000.

Sono cifre che dicono che c’è una questione salariale aperta.
E una politica riformista ha il dovere di agire per una rivalutazione dei redditi da lavoro con almeno quattro misure: politiche contrattuali che recuperino l’inflazione reale; fiscalizzazioni di oneri sociali che riducano il differenziale tra salario lordo e salario netto, in primo luogo per le fasce più basse; sostegni al reddito per chi non ha lavoro o nei periodi intermittenti di non lavoro; una rivalutazione delle pensioni minime, sostenendo contemporaneamente il decollo della previdenza complementare.
Ed è aspetto non secondario intervenire sul livello degli affitti, il cui costo, oggi è l’onere più gravoso per molte famiglie, soprattutto giovani o di anziani soli.

Non ignorando, in ogni caso, che la principale politica redistributiva è aumentare il tasso di attività: fino a che in 48 famiglie italiane su 100 lavorerà un’unica persona sarà difficile assicurare redditi familiari dignitosi.
E, dunque la questione nodale torna a essere l’incentivazione ad ogni forma di occupabilità, che solo si realizza se si aprono spazi, si offrono opportunità, si creano condizioni di impiego in ogni direzione e con una pluralità di forme.
Insomma è una società dinamica quella di cui abbiamo bisogno.

E si giunge così al punto cruciale di un moderno welfare: intervenire là dove disuguaglianze, disparità, nuove e vecchie povertà rischiano di produrre la maggiore dispersione e spreco di capitale umano.
E oggi è “l’area delle 3G”: generazioni, generi, genti.

Generazioni intanto.
Attenzione: per la prima volta viviamo in una società che non assicura ai figli la certezza di avere più opportunità dei padri.
La precarietà sta diventando la condizione esistenziale di una generazione che studia troppo a lungo; entra nel mercato del lavoro troppo tardi; si sposa a trent’anni; e, spesso, senza la certezza di una vita sicura per sé e per i suoi figli.

E’ un rischio che non comincia a 18 anni; spesso comincia molto prima.
Per questo indichiamo una priorità nell’infanzia, perché lì inizia spesso il circuito dell’esclusione, dello svantaggio dell’eredità sociale.
Investire sui bambini – assicurando loro asili nido, scuole dell’infanzia, servizi educativi, come proponiamo con la iniziativa di legge popolare “Zeroseianni” su cui abbiamo avviato la raccolta delle firme dei cittadini – è essenziale sia per assicurare benessere fin dalla nascita – un bambino felice, sarà un adulto maturo, ci ha insegnato Giovanni Bollea – sia per sostenere il ritorno alla natalità e consentire quella conciliazione famiglia-lavoro senza la quale continueremo ad avere bassi tassi di occupazione femminile.

Per le stesse ragioni individuiamo nella formazione il cuore di un sistema di opportunità per i giovani.

“I nostri genitori trovavano un lavoro, manuale od intellettuale che fosse, e lo portavano con sé per tutta la vita; esso diventava la fonte per la costruzione della propria identità sociale e personale.
La nostra generazione non vive più di quel sistema di certezze e ha la necessità di imparare il mutamento. Vogliamo possedere le chiavi che ci diano l’accesso ad un aggiornamento e ad un’innovazione continua”.
Così è scritto nelle tesi del Congresso della Sinistra Giovanile che si terrà tra un mese.

E, dunque, ritorna la centralità del sapere e della conoscenza per offrire a un giovane più opportunità di lavoro e di vita.

E, poi, si tratta di agire sul mercato del lavoro: stabilizzando chi è precario; offrendo una formazione permanente che consenta una reale mobilità sociale; realizzando uguaglianza di tutele e di diritti quale che sia il tipo di lavoro e di contratto; assicurando un reddito dignitoso, anche nei tempi in cui non si lavora, e un sistema di ammortizzatori esteso a ogni tipo di azienda e a ogni tipologia di lavoro.
Sono condizioni essenziali per consentire ad un giovane di vivere la flessibilità senza l’incubo di vederla trasformarsi in precarietà, insicurezza, paura del futuro. E consentirgli di comperarsi casa, di farsi una famiglia, di mettere al mondo figli. E soprattutto di scommettere su di sé, sulle proprie capacità, di promuovere sé stesso.

Non si tratta solo di stanziare risorse o varare leggi.
Si tratta di costruire un sistema flessibile e mobile di welfare.
Penso al governo laburista inglese che ha istituito un Servizio nazionale per l’impiego con centinaia e centinaia di sportelli in tutto il Regno Unito, che si occupano di fare incontrare domanda e offerta, accompagnano la singola persona nel suo percorso lavorativo, ne curano la formazione quando deve passare da un lavoro all’altro, intervengono a sostenerlo nel reddito, si assicurano che i figli non siano emarginati, aiutano a cercare la casa.
Ecco di fronte alla legge 30 – che è una brutta legge perché accresce non la flessibilità, ma la precarietà – dobbiamo sì dire che la cambieremo, ma anche indicare una forma di organizzazione del mercato del lavoro capace di orientare la mobilità, realizzare politiche attive e, così, far sì che nessuno sia lasciato solo.

Parallelamente non è più rinviabile puntare su un “invecchiamento attivo” per una popolazione ultra sessantenne che è gia 1/3 del Paese e, con l’allungamento del tempo di vita, crescerà.
L’età pensionabile non è più un discrimine significativo; anzi la maggioranza delle persone giunge alla pensione in condizione psichiche e fisiche vitali, ancora disponibile a spendere il proprio patrimonio di professionalità, esperienze di vita, affettività, in nuove attività individuali e sociali.
E, dunque, serve incoraggiare – con incentivi e nuove forme di impiego – chi vuole permanere volontariamente in attività anche oltre l’età pensionabile; sperimentare forme di part-time civico e di volontariato sociale; impegnare gli anziani in impieghi di utilità pubblica.
Perché non pensare, ad esempio di diffondere le felice esperienze di affiancamento delle residenze protette per anziani autosufficienti agli asili nido e alle scuole materne, in modo da rendere ancora fruibile l’enorme patrimonio di esperienza e di affettività di cui una persona anziana è ricca?

Così come ci vuole un Fondo nazionale per le persone non autosufficienti che provveda a 4 milioni di anziani, la cui cura spesso è oggi scaricata unicamente sulle spalle dei familiari.

La seconda G: i generi.
Il ruolo attivo delle donne nel mondo è una delle grandi novità del nostro tempo; la loro libertà e il loro benessere appaiono sempre più determinanti per la libertà e il benessere di tutti.
Come scrive Amartya Sen “ Oggi, verosimilmente, nell’economia politica dello sviluppo niente ha un’importanza pari a quella di un riconoscimento adeguato della partecipazione e della funzione direttiva, politica, economica e sociale, delle donne. Si tratta di un aspetto davvero cruciale dello “sviluppo come libertà”.

Con la destra al governo del paese la quotidianità si è fatta pesante per molte, troppe donne; la precarietà nel lavoro, che tocca particolarmente le giovani ragazze, l’assenza di politiche di conciliazione, la destrutturazione dello stato sociale e la caduta dei livelli di solidarietà e di servizi, a cominciare da quelli per l’infanzia e per la non autosufficienza, costringono a scegliere fra lavoro e maternità, fra affetti e carriera.

Il nostro progetto riformista intende mettere al centro le donne, le loro aspirazioni, la loro libertà.
La qualità dello sviluppo e la crescita del paese hanno bisogno delle donne, la cui inoccupazione e disoccupazione, particolarmente nel Mezzogiorno, sono fra le cause strutturali della crisi italiana.

Serve, dunque, fare dell’incremento del tasso di attività femminile – oggi al 43% contro il 55% europeo – una priorità: incentivando in ogni modo l’occupabilità delle donne sia nel mondo del lavoro dipendente, sia nelle attività autonome e professionali; realizzando quelle politiche di formazione e quei servizi sociali che consentano la conciliazione famiglia-lavoro; aprendo ogni spazio alle capacità femminili e mettendo in discussione esclusivismi maschili.
C’è molto da fare: pochissime donne sono nei vertici delle aziende, della pubblica amministrazione, del sistema bancario, della magistratura.
L’Italia è all’ultimo posto in Europa per numero di elette nelle istituzioni, poco più del 10%.
Abbiamo voluto con forza la riforma dell’articolo 51 della Costituzione, che oggi parla esplicitamente di garantire pari opportunità di accesso per uomini e donne alla vita pubblica, proprio per colmare il divario tra ruolo delle donne e loro riconoscimento istituzionale.

E, infine, il ruolo dei cittadini immigrati diviene sempre più centrale, in un paese a bassa natalità e a livelli di disoccupazione calanti.
E’ già oggi il 5% della popolazione. Sarà il doppio nel 2010. E già adesso tra i bambini 1 su 3 è figlio di cittadini stranieri.
Una funzione non solo produttiva – peraltro spesso in mansioni per le quali è difficile reperire forza-lavoro nazionale – ma sociale, se solo si pensa a quanto le “badanti” straniere siano decisive per sottrarre singoli anziani alla solitudine o per consentire a donne con figli di avere un lavoro.
Non ci basta più dire che l’immigrazione è una risorsa.
Ci serve costruire una società multietnica e multiculturale, con politiche di accoglienza, di integrazione, di formazione, di allocazioni abitative.
E questo significa anche costruire una società in cui culture, civiltà, religioni, convivendo, si conoscano e si riconoscano, offrendo a ciascuno la tutela delle proprie identità e alla nostra società la certezza dei suoi valori e delle sue regole.

Sono, dunque, queste le priorità intorno a cui pensare un welfare della società flessibile. Un welfare non statico, ma al contrario capace di accompagnare il cittadino nei diversi percorsi della vita, di rimuovere ostacoli, promuovere occasioni, favorire mobilità sociale e, soprattutto, intervenire là dove “buchi di povertà” possono compromettere la serenità di vita della persona e della famiglia.

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Naturalmente sappiamo che, a questo punto, dobbiamo rispondere ad una domanda: chi paga? Come si finanzia questa politica?
Noi crediamo che non solo si debba, ma si possa rispondere.

D’altra parte nella nostra azione di governo, abbiamo dato al paese la prova della nostra affidabilità, realizzando, negli anni del centrosinistra, obiettivi di risanamento della finanza pubblica tutt’altro che scontati.

Nel suo decalogo del buon riformismo, il primo ministro svedese, il socialdemocratico Goran Persson ricorda che finanze pubbliche sane sono un prerequisito per la crescita e che un paese indebitato non è libero.
Proprio per questo, il primo punto della nostra strategia per il rilancio è e sarà tornare ad un avanzo primario necessario per una decisa riduzione del debito, destinandovi le risorse aggiuntive ottenute con le privatizzazioni.

Gli strumenti per ottenere una finanza pubblica efficace ci sono.
Intanto un rigoroso controllo della spesa, che combatta sacche di minore produttività, sprechi e inefficienze, che ci sono e su cui si può incidere.

Risorse significative possono essere reperite con una politica fiscale seria e ricostruendo un rapporto trasparente fra contribuente e amministrazione finanziaria , logorato da anni di condoni e sanatorie che noi non intendiamo fare.

Tra il ’98 e il 2001 Visco ridusse la pressione fiscale di 4 punti senza che l’erario subisse alcuna riduzione di introito. E’ la dimostrazione che se si fa una politica fiscale seria, recuperando risorse attraverso una lotta a elusione e evasione, ci stanno anche riduzioni.
Mentre pensiamo che oggi sia irrealistico puntare su generalizzate riduzioni fiscali, sono utili riduzioni mirate come la fiscalizzazione di una quota degli oneri sociali per alleggerire le tasse a imprese e lavoratori; o come crediti di imposta e agevolazioni fiscali per chi investe in innovazione, stabilizza giovani assunti, alloca investimenti al sud, accresce la dimensione della propria impresa. Ma queste misure sono possibili se si allarga la platea fiscale e il dovere fiscale torna a essere un impegno civico.

Quel che non è accettabile è il messaggio populistico di Berlusconi, per cui le tasse sarebbero una rapina ai danni del cittadino e dunque l’unica cosa da fare è restituire il maltolto.
No, signor Presidente, il fisco non è una rapina; il fisco è lo strumento con cui una nazione moderna finanzia ospedali, scuole, università, asili nido, strade, ferrovie, porti e realizza equità tra i cittadini.
E se anziché usare il fisco come una mancia con cui cercare di procacciarsi voti, lei avesse usato bene le risorse pubbliche e fatto una politica fiscale seria, oggi l’Italia non sarebbe nelle condizioni critiche in cui è.

Naturalmente una politica delle risorse rigorosa deve fare leva anche sulla responsabilità dei singoli.

Guai a fare "parti uguali tra disuguali", ammoniva Ermanno Gorrieri, un uomo che da poco ci ha lasciato e a cui rivolgiamo il nostro ricordo affettuoso.

Voglio essere più esplicito.
In America quando entri in un ospedale ti chiedono di mostrare la carta di credito e se non hai il reddito sufficiente, la cura non è garantita o addirittura è esclusa. Quello non è un sistema universalista.

Noi, invece, vogliamo una sanità pubblica nella quale quando un cittadino entra in una struttura sanitaria, gli si chieda soltanto per quale malattia è lì e lo si curi.
Ma è del tutto coerente con questo impianto universalista che si chieda a chi ha disponibilità di reddito di concorrere per una quota alle spese sostenute per la sua cura.

Insomma: non è realistico affidare il finanziamento di ogni spesa sociale alle sole risorse della fiscalità generale. Si può e si deve pensare a forme di contribuzione complementare che, riconfermando l’universalità dei diritti e l’assoluta uguaglianza delle prestazioni, consentano di disporre di risorse aggiuntive, facendo leva sulla responsabilità individuale.

Peraltro questo è anche il modo più efficace per evitare la scorciatoia demagogica e improduttiva di sostituire i servizi con forme di monetizzazione.
Bonus e vaucher – con cui la destra propone continuamente di risolvere ogni domanda sociale – possono essere utili; non se sostitutivi a servizi, ma come forme complementari di sostegno a chi non dispone del reddito per usufruire di servizi a tariffa o a retta.

Contributo rilevante ad una spesa efficiente e ad uno stato sociale flessibile sono poi le forme di organizzazione dei servizi, la cui responsabilità va sempre di più affidata agli Enti locali – dove la spesa e la qualità dei servizi è più verificabile e controllabile da chi amministra e da chi è amministrato – ampliando il ricorso a forme di volontariato, no-profit, imprese sociali, grazie ai quali già in questi anni si è sviluppata una rete di servizi e prestazioni di qualità.

Né meno rilevante è il contributo di risorse che può venire dai privati e dal mercato, a cui vanno offerte opportunità e strumenti per investire sul sociale e su servizi di pubblica utilità, perché non tutto ciò che è servizio pubblico deve necessariamente essere erogato da strutture pubbliche.

E, infine, deve essere parte di una politica delle risorse, un'organica politica di liberalizzazioni, che spezzi le incrostazioni oligarchiche alimentate dall'ideologia illiberale e oligopolistica della destra.

Insomma: insieme ad una tutela sociale vera, gli italiani devono poter riconoscere nel nostro welfare, anche l'idea di un'Italia efficiente anche perché più concorrenziale, dinamica anche perché più meritocratica, unita anche perché più giusta.

Non sono politiche facili o indolori, né economicamente, né socialmente: promuovere gli interessi di chi ha più meriti e più bisogni, premiare la capacità e non solo l’anzianità, vedere nella mobilità sociale un’opportunità e non solo il pericolo, suscita la reazione degli interessi conservatori e corporativi, di quanti traggono vantaggio dal mantenimento dello status-quo.

Ma il riformismo è questo: abbattere ogni forma di disuguaglianza, di barriera, di ostacolo al libero dispiegarsi della capacità di ognuno e promuovere politiche attive che consentano a ciascuno di potersi misurare con le proprie scelte di vita.

E intorno a quest’idea di welfare va costruito un nuovo grande patto sociale.
Il centro destra, in questi anni, ha azzerato la concertazione e puntato alla divisione sindacale.
Il venir meno dei principi della coesione e della solidarietà hanno contribuito a portare il Paese in un vicolo cieco. Per noi, viceversa, l’affermazione di questi contenuti richiede un nuovo grande patto sociale e una nuova politica dei redditi che, per essere realizzati, hanno bisogno del sostegno e della convinta partecipazione unitaria del sindacato confederale e di tutte le parti sociali a una rinnovata stagione di concertazione.
Politiche industriali, competitività, diritti, lavoro, difesa del potere d’acquisto delle retribuzioni, costituiscono le coordinate dello sviluppo qualitativo e sostenibile del Paese che noi vogliamo.

Importanti e prossimi appuntamenti contrattuali riguardano quasi sei milioni di lavoratrici e lavoratori dei settori pubblici e privati, e noi salutiamo positivamente l’accordo unitario per il rinnovo del biennio economico raggiunto dal sindacato dei metalmeccanici. In esso sono contenute anche le regole sindacali della democrazia che possono rappresentare un utile riferimento per l’intero movimento sindacale su cui si basi, come è già stato con la legge Bassanini nel pubblico impiego, un quadro legislativo di sostegno alle intese sindacali sul tema della rappresentatività.

***

E, infine, questo paese ha bisogno di ricostruire il suo stato e la sua democrazia politica.

Da troppo tempo la transizione istituzionale è incompiuta.
Siamo approdati al bipolarismo politico. E abbiamo avviato una nuova distribuzione dei poteri pubblici, accrescendo il ruolo delle amministrazioni regionali e locali.

Ma al mosaico mancano tasselli fondamentali: un efficace sistema di garanzie, pensato per un sistema maggioritario e non più proporzionale; uno statuto dell'opposizione in un quadro bipolare; una Camera delle regioni come strumento di raccordo tra l'attività legislativa statale e quella regionale; il riconoscimento e il rispetto della imparzialità delle istituzioni.

Sono esattamente i tasselli che mancano nel confuso e pericoloso disegno di revisione della Costituzione che la maggioranza di centrodestra sta imponendo al paese con la sola forza dei numeri.

La cultura liberale è divisione dei poteri. E' equilibrio tra pesi e contrappesi. E' limiti che si frappongono alla concentrazione del potere. E' primato delle regole, senso dello Stato e delle istituzioni, cultura della legalità.
Il contrario della deriva illiberale che il centrodestra ha impresso al sistema politico e istituzionale del nostro paese.

Si tratta di una deriva che non possiamo solo paventare. Va contrastata in Parlamento e – se la destra si intestardirà a far approvare le sue proposte – andrà battuta con il referendum costituzionale.

Ma soprattutto il disegno illiberale del centrodestra si contrasta avanzando al paese le proposte – che abbiamo depositato in Parlamento – per dare compimento alla transizione: governo del Primo ministro che risponda al Parlamento, un federalismo che non moltiplichi il centralismo a scala locale, un ordinamento della giustizia che individui nell'efficienza della macchina giudiziaria, oggi a livelli inaccettabili in un paese civile, un obiettivo da raggiungere insieme alla magistratura e all'avvocatura e non contro l'una o l'altra.

Una democrazia moderna è tale se sa garantire la sicurezza dei suoi cittadini.
Quando accade come a Napoli o in Sicilia che interi territori divengano zona franca per l’azione della criminalità; quando amministratori pubblici – come in Calabria – sono ogni giorno soggetto di intimidazione; quando si diffonde nell’opinione pubblica la percezione di non essere sicuri; ebbene lì la coesione sociale e l’uguaglianza dei cittadini è in pericolo.

La sicurezza non è un tema di “destra”.
Ogni cittadino – ciascuno di noi – vuole sentirsi sicuro e sapere che i suoi figli, la sua famiglia non sono in pericolo.
E garantire la sicurezza è un dovere di chiunque ambisca a guidare la società. E se è vero che intervenendo nel degrado e nella marginalità si riducono i rischi e le devianze, è altrettanto vero che un’azione sociale è tanto più credibile e efficace se accompagnata da una altrettanto determinata azione di lotta dello Stato e dei suoi poteri contro la criminalità e ogni forma di insidia alla sicurezza dei cittadini.

E’ parte di un assetto democratico in cui tutti possono riconoscersi, un sistema dell’informazione non oppresso da posizioni dominanti. Non si tratta solo di avere leggi adeguate – e la Gasparri, come la legge sul conflitto di interessi non lo sono in alcun modo – ma di cogliere l’occasione delle nuove tecnologie per aprire il sistema, liberalizzarlo, renderlo accessibile a operatori e utenti.

La rete sta diventando il nuovo habitat della nostra vita. E come chiediamo un ambiente vivibile, così vogliamo una rete accessibile per tutti. Qui si gioca un aspetto essenziale di una democrazia moderna.
E in questo quadro la Rai va liberata dal vassallaggio politico a cui è sottoposta, per farla tornare a quel ruolo di “civilizzazione del paese” a cui ha assolto per decenni.
Ma in questo obiettivo non lo si consegue con la privatizzazione che viene proposta oggi, del tutto priva di consistenza economica e rischiosa per il patrimonio di produzione e professionalità dell’azienda.
Per questo ribadiamo di qui la nostra contrarietà e ci impegniamo fin da ora a un riassetto del sistema in cui il rapporto tra Rai e mercato e anche un diverso assetto societario e aziendale riconosca e valorizzi la funzione pubblica del servizio televisivo.
Ma nel frattempo lanciamo di qui una sfida: si metta fine alla vergogna dell’attuale CdA Rai. Disegniamo insieme un vertice che sia indipendente e professionale. Lo si faccia e noi ci impegniamo a non sostituirlo se vinceremo le elezioni.

Una democrazia moderna e liberale è anche quella che riconosce il valore della laicità, la tutela e la promuove.
La laicità come terreno di confronto e dialogo, per costruire convivenza. Laicità come antidoto ad ogni fondamentalismo, garanzia di orientamento nell’inedito di un futuro ormai presente.
Temi eticamente sensibili, che riguardano la sfera personale e più intima della vita delle persone, così come il rapporto fra culture, appartenenze, religioni,
richiedono oggi di andare oltre la libertà di coscienza, interrogano la relazione fra libertà e responsabilità, la ridefinizione costante del limite nella ricerca scientifica, richiedono alla politica apertura della mente e capacità di mediazioni alte.

E’ a questa visione che si ispirano le nostre proposte per il riconoscimento delle forme di convivenza – sia tra persone di sesso diverso, sia in coppie omosessuali – pur nel pieno rispetto del principio costituzionale della famiglia fondata sul matrimonio.

E’ questo lo spirito che ci ha animati nell’iniziativa per modificare radicalmente la legge sulla fecondazione assistita.

La nostra intenzione è sempre stata chiara: dare al paese una buona legge che tuteli nascituro, la coppia, la donna, la ricerca. E anche ora in Parlamento ci confrontiamo con serietà, ricercando soluzioni vere e non accordi sotto tono. Ma se ciò non è possibile con serenità, ci avviamo alla campagna referendaria sui quesiti mirati che abbiamo promosso e sostenuto. E voglio ringraziare ancora una volta le compagne e l’intera organizzazione del partito per lo sforzo immane fatto in poche settimane.

A chi dice che i referendum dividono il paese rispondiamo che, casomai, lo rendono più moderno, come è avvenuto nei periodi migliori della storia italiana. E in ogni caso non si tratta di contrapporre credenti e non, ma di dare all’Italia una legge civile e responsabile, che chiunque possa condividere senza violare i propri convincimenti etici o religiosi.
A chi ritiene che si debbano svuotare i referendum non partecipando al voto, rispondiamo che le opinioni sono tutte legittime, ma che la democrazia vive nella ricerca del dialogo, non nella fuga dal confronto.
A chi infine pensa che sia imbarazzante la presenza di orientamenti differenti nella nostra coalizione, rispondiamo che il pluralismo è un valore che ci è molto caro e che lavoreremo per allargare la partecipazione e conquistare consensi ai referendum, mantenendo aperto un confronto sereno con ogni opinione.

***

Ma la deriva illiberale della democrazia italiana si contrasta efficacemente se si rimuovono alla radice le cause storiche e politiche che l'hanno prodotta.

Qui il cerchio si chiude. Il rischio di declino dell'Italia è dovuto alla mancanza di riforme che rimettano in moto il Paese, rimotivando le grandi energie di cui esso dispone, a impegnarsi per il rinnovamento dell'economia e della società.
Ma il centrodestra non ha né le capacità, né la cultura, né l'interesse a interpretare il nuovo e a guidare il cambiamento.

E allora, care compagne e compagni, è tempo di togliere la parola riforma dalle mani della destra, “Riforma” è sinonimo di miglioramento, progresso, evoluzione positiva, conquista civile.

Ed è anche tempo di essere noi rigorosi e intransigenti con le parole: smettiamola di dire “riforma Moratti”, perché quelle sono misure che non riformano, ma deformano la scuola.
Smettiamola di dire “riforma Gasparri”, perché quella è una legge che comprime il pluralismo culturale e imprenditoriale.
Smettiamola di dire “riforma costituzionale” perché quello è un orrendo strappo istituzionale.

Chi sta a destra non è riformista.
A destra ci sono i conservatori che attuano politiche – del tutto legittime – ma che non sono le nostre.

Noi siamo i riformisti e questa è la portata storica della sfida che abbiamo davanti: l'unità dei riformisti per dare una speranza all'Italia.
Anche in politica forma e sostanza si tengono: nessun progetto politico è credibile, se non si sa chi lo realizza. E nessun soggetto politico è credibile se non indica quel che vuol fare.

E, dunque, il centrosinistra deve proporsi come uno schieramento in grado di assicurare i cittadini che saremo in grado di governare, per un’intera legislatura e assumendoci ogni responsabilità che comporta guidare un grande paese.

Tre sono i cardini di questo progetto: un leader forte, un’alleanza larga, un timone riformista solido.

Nessuna di queste scelte vive da sola: un leader senza un forte soggetto politico sarebbe esposto al rischio della deriva plebiscitaria e antipolitica.
Una coalizione senza leader sarebbe muta davanti agli elettori e disarticolata dinanzi alla necessità della sintesi politica e programmatica.
Una coalizione senza guida politica riformista sarebbe esposta alla paralisi e quindi a nuove forme di divisione.

Serve intanto una leadership forte, capace di parlare al paese, di aggregare energie, di raccogliere una classe dirigente.

Mentre la destra scommette sulle virtù taumaturgiche e plebiscitarie di “un uomo solo al comando”, noi vogliamo e dobbiamo proporci come una classe dirigente ampia, diffusa, plurale.

Noi lo possiamo fare: perché abbiamo accumulato negli anni una consolidata esperienza di governo locale e nazionale, selezionando e promuovendo una nuova leva di dirigenti, di cui anche le candidature alle prossime elezioni regionali sono testimonianza; e perché il centrosinistra gode di un sistema ampio di relazioni sociali – in primo luogo nei tanti territori di questo paese – che consente di attivare energie, saperi, competenze.

Tutti insieme abbiamo scelto Romano Prodi e intorno a Prodi vogliamo e dobbiamo schierare una nuova classe dirigente, che il centrosinistra ha in misura certamente più ampia del centro destra.

In questa visione abbiamo detto sì a forme di investitura democratica e popolare della leadership di Romano Prodi e le “primarie” a questo devono servire: a unire il centrosinistra e a rafforzarne la sua credibilità; non a dividerlo.

Un centrosinistra – ecco il secondo cardine di riorganizzazione del nostro campo – che esprima un’Alleanza Democratica larga e coesa.
Certo, vince chi si presenta agli elettori con lo schieramento più largo e più unito. Ma il cemento non può che essere la condivisione di un progetto di governo e dei suoi assi strategici.
Nel dire questo non sottovaluto, né svilisco l’ansia di liberazione dal berlusconismo che muove settori ampi di società. D’altra parte se per tre anni consecutivi ogni passaggio elettorale registra per la destra riduzione di consensi e disaffezione elettorale, ciò significa bene qualcosa. Ma quella giusta domanda ha bisogno di saldarsi con un progetto che parli all’intero paese.
E, dunque, occorre accelerare il confronto programmatico nel centrosinistra, non celando differenze e ricercando sintesi vere, che consentano di offrire all’Italia un programma di governo credibile e convincente.

Ma un leader forte e un’alleanza di governo larga, hanno bisogno di solido timone riformista.
Ed è questa la ragione della Federazione dell’Ulivo, che non può essere letta come semplice soluzione organizzativa, né solo come cartello elettorale.

C'è una grande bandiera per terra, la bandiera della rinascita morale e civile dell'Italia, la bandiera di una politica pensata e vissuta come impegno per il bene comune, la bandiera del primato dell'interesse generale come unica via per una difesa non miope degli interessi particolari.

Ma non potrà essere un florilegio di partiti rissosi ad alzare la bandiera del riformismo. E non potrà essere neppure un uomo solo, per quanto grande e forte.

Solo insieme, uniti nell'Ulivo, possiamo pensare così in grande e puntare così in alto. Solo insieme, uniti nell'Ulivo, possiamo dare alla democrazia italiana lo strumento democratico che è indispensabile a rendere possibile un governo nuovo, il governo che guidi l'Italia fuori dall'incubo del declino, verso una nuova stagione di sviluppo.

E' per questa analisi storica e per questa visione politica – e non per immediate convenienze elettorali, che anzi ci avrebbero forse consigliato il contrario – che un anno e mezzo fa abbiamo risposto con un sì convinto e deciso, alla proposta di Romano Prodi di dar vita ad una lista Uniti dell'Ulivo alle elezioni europee, votata da 10 milioni di persone, affermandosi come la prima forza del Paese. Ed è per questo che ci siamo battuti perché l'Ulivo si presentasse agli elettori se non in tutte – come noi avevamo proposto – almeno nella grande maggioranza delle Regioni.

Ed è in forza di queste stesse, grandi ragioni, che abbiamo voluto sottoporre al Congresso, coinvolgendo nella decisione centinaia di migliaia di iscritti ai Democratici di Sinistra, la proposta di dar vita ad una Federazione dell'Ulivo, insieme alla Margherita, allo Sdi, ai Repubblicani europei.

Sappiamo bene che lungo più di cento anni il riformismo italiano si è manifestato in modo plurale: il riformismo socialista, di cui noi siamo tanta parte; il riformismo del cattolicesimo sociale; il riformismo di ispirazione laica e repubblicana. E in anni più recenti il riformismo ambientalista.
Sono le culture democratiche e riformiste che – in ogni passaggio cruciale della storia italiana – si sono date il compito, di incarnare le speranze di cambiamento, il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro, una spinta verso la libertà e l’emancipazione, una crescita delle opportunità civili per tutti.

Oggi queste stesse forze si pongono l’obiettivo ambizioso di andare oltre la collaborazione, la convergenza, l’alleanza.
La Federazione dell’Ulivo, come progetto comune delle culture riformiste; come luogo di incontro e di comune azione; come patto che ci vincola reciprocamente a costruire insieme l’avvenire del paese.
La Federazione come soggetto capace di far incontrare i partiti del riformismo con quelle soggettività culturali, sociali e di movimento di cui è ricca la società italiana.

Infondata è la contrapposizione tra riformisti e radicali, perché semmai radicalismo si oppone a moderatismo.
Ma noi non siamo moderati, noi siamo riformisti. E come ammoniva spesso, un grande riformista come Francois Mitterand, “il riformismo non è la destra della sinistra”.
E nel tempo di oggi “riformare” – cioè cambiare lo stato esistente delle cose – non è meno difficile, né meno nobile di una tensione rivoluzionaria.

Il riformismo è la capacità di saldare l’idealità di una visione con la concretezza del quotidiano.
Il riformista è colui che non solo si dà obiettivi e strategie, ma indica anche con quali strumenti, con quali risorse, con quali rapporti di forza, attraverso quali gradualità raggiungerli.
Riformismo è cultura di governo, è pragmatismo in luogo di ideologismo, è riconoscimento dei meriti accanto al rifiuto dell’ingiustizia, è soprattutto senso di responsabilità istituzionale quando si è alla guida del Paese come quando si è all’opposizione. Ma non è, non è mai stato e non può essere l’equidistanza geometrica tra destra e sinistra, l’incapacità di esprimere giudizi netti, il rifiuto di testimoniare altri valori e altri principi.
E per essere riformisti c’è bisogno di valori forti, passione civile, tensione ideale, principi etici.
E la radicalità dei convincimenti è, dunque, parte di una cultura riformista.

Soprattutto, il riformismo non è la fuoriuscita dalla sinistra. E’ la volontà di far incontrare i valori di liberazione, giustizia, progresso della sinistra con la modernità e la sua complessità economica e sociale.

E oggi questo si traduce nel costruire anche in Italia un soggetto federativo a vocazione maggioritaria, incentrata sull’Europa, che occupi quello spazio di innovazione, di progresso, e di giustizia sociale con cui in altri paesi la sinistra riformista ha già dimostrato e dimostra di poter competere con la destra.

Questo è il senso della Federazione.
Non un partito unico. Perché i partiti non si fondano, né si sciolgono a tavolino.
I partiti sono formazioni storiche che affondano le loro radici nella civiltà di un popolo, nelle culture di un paese. Sono intreccio inestricabile di valori e di interessi materiali. Vivono della passione, dei sentimenti, delle ansie e delle aspettative di milioni di donne e di uomini.

Senza partiti, la democrazia deperisce e il potere passa di mano: quando va bene, con la supplenza delle grandi tecnocrazie, quando va male, con il formarsi e il consolidarsi di gruppi di potere, che occupano lo Stato e lo trasformano in strumento di potere al servizio di interessi privati. E l’antipolitica avanza.

E senza grandi partiti democratici non può esserci né stabilità dei governi, né ricambio delle classi dirigenti, né tanto meno quella mobilitazione delle energie intellettuali e morali, senza le quali nessuna riforma, per quanto necessaria, diventa possibile.

Proprio per questo la sfida di agire insieme, di vincolarci reciprocamente ad un’azione comune, di strutturarci in Federazione, è tanto più fattibile in quanto i partiti vi concorrano con la loro forza, le loro culture e le loro radici.

Ma questi partiti, e in particolare quelli che aspirano a cambiare le cose esprimono una tensione riformista, non sono totem impenetrabili da placare con sacrifici umani.
I partiti non sono immutabili nel tempo.
La loro identità evolve con la società che ambiscono a rappresentare. E oggi dalla società italiana viene una domanda di unità.

Federazione e partiti: l’una tiene gli altri. Così come l'Unione Europea ha una sua soggettività, ambiti di competenze, regole e strumenti, senza che questo significhi la sparizione degli Stati nazionali, ma anzi riceve legittimità ad agire dagli Stati nazionali, così l'Ulivo – che nasce per volontà dei partiti e da essi trae legittimazione – ha anch'esso bisogno di una elaborazione propria, di regole autonome di funzionamento, di criteri e strumenti democratici di selezione delle candidature e della leadership, di ambiti di competenza riconosciuti.

A tutto questo i DS sono pronti e da questa assise congressuale vogliamo riconfermare a Romano Prodi e agli amici dell’Ulivo la nostra ferma determinazione ad operare perché la Federazione dell’Ulivo si costituisca in modo sempre più riconoscibile e riconosciuto come la forma politica e organizzativa con cui il riformismo opera per tornare a governare l’Italia.

E’ tutta la nostra storia ad essere stata ispirata dalla ricerca dell’unità: della sinistra, dei riformisti, dei democratici.

Quindici anni fa superammo il Pci e fondammo il Pds con questo obiettivo, facendo fino in fondo i conti con il comunismo e riconoscendo che il socialismo democratico e il riformismo erano l’unico campo nel quale la nostra esperienza storica e le nostre idee potevano continuare a essere feconde.
Otto anni fa trasformammo il Pds in Democratici di Sinistra, per unire già dentro di noi culture ed esperienze di diversi filoni riformisti.
E a Pesaro, tre anni fa, dichiarammo – con un voto esplicito – la nostra disponibilità a essere parte di un nuovo progetto unitario.

E’ dunque un’ispirazione unitaria che viene da lontano quella che ci muove. E oggi conosce la nuova sfida di unire il riformismo per realizzare quel che in Italia non è ancora mai accaduto: raccogliere intorno al riformismo un consenso maggioritario del paese.
Nel farlo ci apriamo al confronto e all’incontro con partiti che vengono da storie e formazioni diverse.
Allo Sdi di Enrico Boselli ci unisce la condivisione dei valori e dei principi del socialismo democratico. Ai Repubblicani europei di Luciana Sbarbati la comune appartenenza alla sinistra italiana.
Alla Margherita – che con Francesco Rutelli ha dato forma all’originale incontro del cattolicesimo democratico con valori liberaldemocratici – ci unisce la comune tensione a fondare il riformismo su valori di libertà, uguaglianza, solidarietà, rispetto della persona.

A questa nuova impresa ci accingiamo con animo aperto, con spirito di ricerca, con la volontà di costruire insieme ai nostri alleati una casa in cui non ci siano maestri e discepoli, ma soltanto riformisti, con pari dignità e uguali diritti, uniti dall’obiettivo di rappresentare al meglio gli interessi degli italiani.

Siamo sicuri che nei nostri alleati vi sia la stessa nostra convinzione e determinazione.
E, comunque, noi lavoreremo con tutte le nostre forze perché il riformismo sia vincente.

D’altra parte un forte timone riformista è anche la condizione per rendere più credibile la larga Alleanza Democratica di centrosinistra.

E una delle ragioni dei successi elettorali del 2002, 2003, 2004 sta proprio nella ritrovata unità, che – ricomponendo la frattura tra Ulivo e Rifondazione Comunista e Italia dei Valori – ha consentito così larghi successi dal Friuli alla Sardegna, da Verona a Pescara, da Bologna a Bari, dalla Provincia di Milano alla Provincia di Roma.
E anche alle regionali del prossimo aprile la grande Alleanza Democratica si presenta unita.
Ma, appunto, la sua credibilità di coalizione sarà tanto più forte in quanto sia visibile chi la guida e con quale politica.

E tanto più se il centrosinistra si aprirà anche ad altre convergenze, come con il Partito Radicale di cui apprezziamo la importante disponibilità a camminare insieme a noi. Una disponibilità che siamo pronti a raccogliere in tutte le Regioni chiamate al voto, con un impegno di comune azione di legislatura che assicuri gli elettori sulla stabilità delle future amministrazioni regionali.

***

A queste nuove sfide noi DS vogliamo concorrere con la nostra storia e la nostra identità.
L’identità di una forza di sinistra, riformista, che si riconosce nei valori del socialismo democratico europeo, che è l’unica esperienza di sinistra che ha saputo coniugare giustizia sociale e libertà, sviluppo e redistribuzione, competitività e uguaglianza.

Un’esperienza che, sorta in Europa con le socialdemocrazie, ha saputo allargare il suo sguardo ad orizzonti globali più ampi, assumendo temi cruciali per il destino del pianeta, quali la necessità di nuove relazioni di scambio tra nord e sud e l’urgenza di fondare lo sviluppo su basi sostenibili.

Un’esperienza che anche in questi anni non si è proposta come statica, se è vero che Schroeder in Germania, la Brundtland in Norvegia, Tony Blair in Gran Bretagna, Gonzales e Zapatero in Spagna sono stati e sono portatori di innovazioni miranti a far vivere l’uguaglianza nella società flessibile e a misurarsi con le nuove sfide del globale. E non è per caso che quando Lula, Nelson Mandela, Arafat hanno voluto collocare i loro movimenti in una dimensione politica internazionale, abbiano scelto l’Internazionale Socialista. E che anche i Democratici americani abbiano scelto l’Internazionale come l’interlocutore per comuni strategie globali.

A questo campo apparteniamo noi, così come peraltro indica il nostro simbolo, nel quale alla Quercia si affianca la Rosa dei socialisti europei e il richiamo, che espliciteremo per esteso, al Partito del Socialismo Europeo di cui siamo stati fondatori nel novembre del ’92 e di cui saluto il suo Presidente Nyrup Rasmussen.
Un’appartenenza politica e culturale coerente con il carattere plurale dei Democratici di Sinistra, sorti otto anni fa dall’incontro del Pds con l’esperienza dei Cristiano Sociali, di Socialisti e Laburisti, Comunisti Unitari, Repubblicani.
E in questi giorni questo nostro profilo pluralista si è ulteriormente arricchito dell’adesione di Edo Ronchi e un gruppo di personalità provenienti dal mondo ambientalista e verde e di Luigi Manconi, portatore di sensibilità maturate sui temi dei diritti civili.

E ciò non solo non contraddice la nostra volontà di concorrere alla Federazione dell’Ulivo, ma ne rafforza la credibilità.
Proprio perché i DS sanno unire dentro di sé culture e storie diverse, possono maggiormente concorrere all’incontro dei diversi riformismi italiani.

E anche in questo caso, peraltro, può soccorrere l’esperienza europea nei cui partiti socialisti e socialdemocratici, convivono da tempo correnti cristiane – si pensi a Jacques Delors – culture ambientaliste, esperienze liberaldemocratiche e movimenti radicali.

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I Democratici di Sinistra, dunque, hanno deciso.

Sappiamo che non tutto dipende da noi.

Ma sappiamo anche che possiamo cimentarci con questa nuova sfida proprio perché non siamo più il partito smarrito e incerto di tre anni fa.
L’impegno di tutti – e quando dico tutti, intendo delle nostre diverse sensibilità, così come dei nostri gruppi dirigenti regionali, provinciali e locali – ci ha consentito di uscire dal cono d’ombra della sconfitta, di ricostruire relazioni con la società, di ritrovare più ampi consensi elettorali, di radicare ulteriormente la nostra forza e rinnovarla.

Tre soli dati richiamo alla vostra attenzione: con oltre 600.000 iscritti ai DS e alla Sinistra Giovanile siamo la più grande forza politica italiana e la seconda in Europa; in questa platea congressuale, per prima volta, abbiamo il 40% di delegate a conferma che la parità della rappresentanza noi l’abbiamo presa sul serio; una nuova generazione di dirigenti sta prendendo nelle sue mani il partito e già oggi il 40% dei nostri Segretari Provinciali ha meno di 40 anni e questo rinnovamenti investirà ora anche il gruppo dirigente nazionale.

E siamo oggi un partito più unito di tre anni fa.
Una unità non fondata sul conformismo o sull’annullamento delle differenze, ma al contrario sul loro riconoscimento e sulla loro fecondità.

Sono tutti segnali di buona salute. Di un partito radicato e forte, guidato da un gruppo dirigente largo, autorevole e riconosciuto.
Di tutto ciò desidero ringraziare ogni compagna e ogni compagno e in particolare, Massimo D’Alema che vi propongo di riconfermare Presidente dei Democratici di Sinistra.

Tutta la nostra storia ci ha insegnato che la nostra forza è feconda se non è vissuta in solitudine.
Noi vogliamo essere lievito, forza aggregante, motore unitario.
Quanto più uniremo, tanto più la nostra funzione dirigente sarà utile alla sinistra e all’Italia.

Chi sente forti le proprie ragioni, robuste le radici sulle quali si regge, grandi le idee per le quali lotta, non ha paura di aprirsi, di incontrarsi con altri, di unire storie, culture, forze, organizzazioni, in un comune impegno al servizio del Paese.
Ecco questa è la nostra sfida, la sfida riformista.

A questa nuova prova andiamo forti della nostra identità e dei nostri valori, che guardando al mondo, così come osservando la società italiana, appaiono più attuali che mai.

Penso al valore della pace, intesa non soltanto come assenza di guerra, ma come assunzione della non-violenza quale fondamento delle relazioni tra le persone, tra i generi, tra le nazioni.
La non-violenza come valore su cui fondare una società libera da ogni forma di oppressione e discriminazione.
Questo è quel che chiedevano milioni di giovani che hanno percorso le strade d’Italia e d’Europa con le bandiere della pace.
Un sentimento così ampio e diffuso da indurre un creativo pubblicitario, sensibile e intelligente, a ricorrere proprio in questi mesi all’immagine di Gandhi per trasmettere a milioni di persone un messaggio di fratellanza e amore.

Penso al valore dell’uguaglianza, parola che sembrava appartenere ad un altro secolo e che invece oggi torna di piena attualità di fronte alle disparità enormi che segnano il pianeta e alle forme nuove di ineguaglianze – pensiamo al lavoro – che percorrono anche le società opulente come la nostra.

Penso alla parola solidarietà e la metto in connessione con quell’altra parola – solitudine – e vedo quanto oggi nella nostra vita ci sia bisogno della prima per vincere la seconda.
E di fronte alle tante solitudini della modernità – la solitudine dei bambini, la solitudine degli anziani, la solitudine delle famiglie – risulta ancora più chiaro: quanto essere di sinistra, essere riformisti, voglia dire battersi perché nessun sia solo, nessuno si senta solo, nessuno sia lasciato solo.

E penso, infine, alla parola libertà che racchiude dentro di sé quei valori – la dignità della persona, l’uguaglianza dei diritti, il riconoscimento dell’altro, l’essere padroni del proprio destino – per la cui affermazione vogliamo batterci finché anche un solo uomo, una sola donna di questa terra sia vittima di oppressione, umiliazione e negazione.

Quella libertà per cui 60 anni fa una generazione scelse di battersi contro il nazismo, il fascismo, l’orrore dell’olocausto, per riscattare l’onore dell’Italia e la dignità degli italiani.

Così, forti della nostra identità, orgogliosi della nostra storia, consapevoli delle responsabilità che abbiamo verso l’Italia, noi vogliamo agire.
E lo vogliamo fare insieme a milioni di donne e di uomini che credono in un futuro migliore per sé e per i propri figli e vogliono combattere per ottenerlo.

“Non siamo nati soltanto per noi soli”: sono parole bellissime di Platone di cui Marco Tullio Cicerone ci parla nel De Officis.

In quelle parole c’è la consapevolezza che ciascuno di noi ha bisogno dell’altro e, anzi, l’identità stessa di ognuno si forgia nell’essere parte di una comunità, di un popolo, di una nazione di cui condivide vita e destino.

Questo siamo noi, i Democratici di Sinistra.
Una grande forza che vive ogni giorno le stesse ansie, le stesse speranze, gli stessi dolori e le stesse gioie di milioni di donne e uomini del nostro Paese.

Così – come in tanti altri momenti cruciali della vita dell’Italia – noi siamo pronti.

Gli italiani possono contare su di noi.

E noi non deluderemo le loro speranze.



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