martedì 28 ottobre 2014

Condividiamo spazi, tempo e trapani

Un trapano costa in media 100 euro e, da quando viene acquistato, viene utilizzato mediamente dai sei ai tredici minuti. Una famiglia che vive in cohousing può risparmiare in un anno 5.500 euro e 3.000 ore di tempo. Sembrano dati scollegati tra loro, in realtà portano entrambi ad una considerazione importante, soprattutto in tempi di crisi: condividere premia e paga. Di questo ho parlato conSilvia Sitton, giovane modenese studiosa di modelli abitativi community-oriented e appassionata di innovazione sociale nonché autrice del blogIrughegia.
«Cohousing è prima di tutto una parola molto di moda e per questo troppo spesso usata impropriamente – mi spiega Silvia -. Abitare collettivo è una definizione sicuramente meno cool ma che, senza fraintendimenti comunitaristi, racchiude quelle esperienze abitative che vogliono recuperare la dimensione sociale del vivere del passato, quella di famiglia allargata. Spesso oggi si vive in una realtà atomizzata, diffidente alle relazioni e ostile alla mutualità. Ho provato questo per la prima volta quando sono andata a vivere da sola e poi, in misura maggiore, una volta diventata mamma: tra lavoro e famiglia la vita si complica e, per come è strutturata, diventa sempre più individuale».
Sul suo blog Silvia scrive: “La sociologa premio Nobel Alva Myrdal già nel 1932 metteva in luce l’irrazionalità delle residenze isolate ‘dove venti donne preparano le loro polpette in venti piccole cucine mentre venti bambini giocano soli nelle loro camerette’ gridando i benefici di un modello alternativo di abitare collaborativo, che prevede la condivisione di spazi, tempo, impegno, risorse, attrezzature, valori, energie, nell’assoluto rispetto della privacy e dell’autonomia individuale”.
«Alla base di queste idee – mi spiega Silvia-  c’è il lusso democratico: le famiglie si uniscono in primo luogo per necessità e non per un ideale. E poi perché insieme possono ottenere cose che da soli non potrebbero permettersi, risparmiando contemporaneamente tempo e denaro. In più in queste esperienze c’è spesso anche una spinta verso un nuovo modello di welfare, autogestito e di comunità, capace di offrire sevizi alla collettività (ad esempio l’accoglienza famiglie in difficoltà, una piccola biblioteca o uno spazio ricreativo per bambini). Questa nuova idea di welfare non andrebbe a sostituirsi ai servizi già presenti ma si inserirebbe al loro interno, con un risparmio anche da parte delle amministrazioni locali. Un esempio: far risiedere una mamma con il suo bimbo in un appartamento sociale destinato a famiglie con fragilità genitoriali costa al Comune circa 150 eurp al giorno. La stessa soluzione, se prevista in una realtà di cohousing e concordata tra amministrazione e cohouser, costerebbe invece al pubblico circa 400 eurol mese, quelli dell’affitto dell’appartamento, e permetterebbe alla donna di vivere in maggiore autonomia dai servizi sociali, in comunità accogliente con altre sue pari».
Compresa la portata innovativa e di forte convenienza economica di questi modelli abitativi le amministrazioni locali dovrebbero, secondo Silvia, mettere a disposizione in primo luogo immobili non utilizzati (e, solo quando non disponibili, terreni) e offrirli alle famiglie a condizioni vantaggiose in cambio dello sviluppo, da parte loro, di progetti di abitare collettivo. Le famiglie, infatti, oltre a costruirsi la loro casa, dovrebbero garantire la presenza di ambienti comuni aperti alla collettività e prevedere forme di fruizione pubblica.
«Un buon progetto di cohousing – continua – deve essere innanzitutto sperimentale, cioè deve essere nuovo e avere il coraggio di andare al di là degli schemi. Per non trasformarsi in qualcosa di elitario e rispondere a reali esigenze abitative è indispensabile abbia costi e tempi sostenibili. Infine deve essere facile da capire e in qualche modo istituzionalizzato, per essere replicabile su vasta scala». Anche a Modena qualcosa si sta muovendo. Un anno e mezzo fa il Comune ha infatti aperto un bando per la realizzazione di una palazzina in un’area confinante con il parco di via Divisione Acqui da destinarsi a cohousing, vinto, dopo una storia tormentata, dalla cooperativa Modena Casa e dall’associazione Coabitat, fondata da Silvia e altre famiglie. Il progetto prevede la realizzazione di una palazzina costruita in classe energetica B composta di 16 appartamenti, due dei quali saranno a disposizione dell’amministrazione comunale. 276 metri dell’edificio saranno destinati ad aree comuni come un piccolo deposito per il Gas (Gruppi di acquisto solidale), una sala polivalente condominiale, la ciclo officina, uno spazio pensato appositamente per bambini e un ambiente destinato alla musica. Spesso i bisogni delle famiglie e la loro volontà di sperimentare nuovi modelli abitativi si scontrano con i tempi lunghi, la burocrazia e la poca voglia di osare da parte degli enti locali.
Così è successo anche alle famiglie di Itaca, la prima realtà di cohousing modenese, alle quali ci sono voluti dieci anni di costanza per vedere realizzato il loro progetto. «Itaca è un condominio di 12 appartamenti in via Faenza – mi racconta Silvia -, autocostruito dalle famiglie seguendo i principi dellabioarchitettura e ponendo attenzione al riuso e riciclo dei materiali, con diversi spazi comuni. Itaca è anche una cooperativa a proprietà indivisa che è riuscita ad ottenere dal Comune il terreno in diritto di superficie su cui costruire le case. Nonostante questo le difficoltà sono state tantissime e il progetto ha visto la luce solo dopo dieci anni».
«La nuova frontiera dell’abitare – conclude Silvia, che sta facendo un dottorato in Sharing Economy e nuovi modelli dell’abitare – è quella che riesce a integrare la parte di costruzione di una casa con quella di gestione sociale degli abitanti, passando dalla logica dell’edilizia popolare (‘ti dò un tetto’) o di mercato (‘scegli il tetto che più ti piace’) ad una logica che mette al centro la persona e le sue esigenze, non solo abitative (‘attraverso la casa ti do degli strumenti’). In italiano esiste una sola parola per definire la casa. In inglese invece ce ne sono due: si utilizza house per indicare l’edificio e home per fare riferimento alla parte emozionale e sociale dell’abitare, alla casa come luogo-identità. In quest’ottica anche in Italia l’housing dovrebbe essere trattato come un verbo, non come un sostantivo, come un processo più che un prodotto».


http://comune-info.net/2014/10/condividiamo/

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